A Toronto
Jannik Sinner, l'antitaliano per eccellenza
Lo charme vincente del mix sconosciuto a questo paese: il Precisetti dal colpo abbestia, dal sorriso sincero e umile anche nella vittoria
Certe volte uno si dice, ma questo Sinner costruisce il tennis come un muratore, mattonata dopo mattonata, è monotono, non mette mai o quasi acrobazia e fantasia nella pallina, tira colpi eccezionali ma solo per normalizzarli, fa punto e basta, quando lo fa. Sbagliato. Appare sì un faticone, un primo della classe al limite del privo della classe (non ricordo di chi sia il calembour, forse Fruttero), specie quando si confronta con i rutilanti successori potenziali dei Fab Three, ma l’apparenza inganna. Sinner sa essere smagliante nell’ordinarietà del bravo atleta e bravo ragazzo, gioca mettendoci forza e rispetto per le regole e per la personalità, la sua e quella dell’avversario. Il cappellino lo porta giusto, fa progressi vistosi quando batte e quando ribatte, e se prova una corta micidiale o va in rete, raramente, troppo raramente dicono i tecnici, si accosta al tiro mancino con la grazia e il ritegno di uno che osa dove non dovrebbe. Con quei riccioli scomposti rosso salmone, con quella compostezza da ventunenne che vuole nascondere la sua giovane età dietro una professionalità da vecchio esperto che non se la tira, è da applauso.
Di antitaliani così c’è penuria, da sempre. Infatti è straniero, a partire dal nome e cognome, diverso da tutti i colleghi della nostra amata e bizzosa “nazione”, non ha il glamour di Berrettini, la scostumata strafottenza di Fognini, i movimenti impeccabili e piacioni di Musetti, la tigna ossessiva di Sonego. Però è una macchina che può all’occasione rivelarsi infernale, ha pochi muscoli o cavalli motore ma va duro e veloce come fosse un fustaccio allenato per lo sfondamento. E preciso, al millimetro, quando è in giornata. Precisetti è anche nel comportamento tra campo e podio, le sue dichiarazioni sono brevi, in un inglese sincero e fluente, sinceri i suoi abbracci e complimenti all’avversario vincitore o sconfitto, da dove avrà preso tutto quel fair play, quel pugnetto abbastanza raro e timido, quella capacità di non mostrare in modo troppo plateale la gioia della conquista, la vanità del titolo appena intascato? Non si capisce se la nostra amata e malfida “nazione” accetterà che se ne faccia un idolo, di questo progetto educativo in carne e ossa che sfida la sua maleducazione e informalità naturale, di questo tipo di montagna e di valle che implica e porta con sé il pagamento delle tasse fino all’ultima lira, uno spirito di squadra non vistoso e ciarliero, un senso delle radici e della bandiera solido e rassicurante perché non ostentatamente patriottico, piuttosto blandamente verde, ciclabile e forse anche Ztl.
Dovremmo, in teoria, e saremo facilitati a farlo in relazione ai suoi risultati agonistici, perché sebbene il cattivo e il nevrotico riscuotano un successo cinematografico esplosivo in uno sport così stranamente cinetico e nervoso, basti pensare all’australiano Kyrgios, tutto classe e rabbia, sempre sul punto di abbandonare, di sbeffeggiare il decoubertinismo tennistico di rigore, basti pensare al leggendario americano McEnroe, uno che se la giocava come fosse al casinò di Atlantic City, anche il correttismo del mezzo sorriso e del colpo abbestia combinato con l’andatura costante ha il suo charme.
Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA