gli 80 anni del numero 10 del Milan
Chiedi chi era Gianni Rivera
Come un romanzo d’appendice che si rispetti, la biografia del Golden Boy è stata un susseguirsi di capitoli tutti diversi: alle vette gloriose dei successi sportivi si alternavano le polemiche, i passi falsi e quelli che poi si sarebbero chiamati gossip
Nel dicembre del 1999 alla festa ufficiale per i 100 anni del Milan, un cronista malizioso domandò a Gianni Rivera se non si fosse stupito di essere stato invitato dal presidente Silvio Berlusconi, che aveva così dimostrato la sua magnanimità nei confronti di uno dei suoi più irriducibili avversari. L’ex Golden Boy, arrotando la erre mandrogna, rispose: "Be’, senza di me sarebbe stato come festeggiare solo gli 80 anni del Milan". Il cronista rimase lì come quello della mascherpa. Il Gianni se ne liberò, come quando in partita dribblava con una finta elegante l’allocchito marcatore.
Oggi, tocca proprio a lui, Gianni Rivera, nato il 18 agosto 1943, compiere 80 anni e io mi chiedo come si possa raccontarlo. Intendo raccontarlo a quelli – che sono ormai i più – che nel caso più fortunato lo conoscono solo per sentito dire. Quelli, ad esempio, come mio figlio, nato nel 1999, proprio nell’anno del centenario, e cresciuto sì a pane e Milan, ma il Milan di Sheva e Kakà. È come se a me, quando avevo la sua età, avessero chiesto chi era Peppino Meazza o "alla ragazzina bellina col suo sguardo garbato, gli occhiali e con la vocina ma chi erano mai questi Beatles?". Ma, per l’appunto, facciamo un passo indietro, indietro di cinquant’anni e proviamo anche noi a "toccare sulla fronte il tempo che passa volando / […] e come il vecchio / di oggi sia stato il ragazzo di ieri".
Quando, dopo aver consumato parecchie paia di scarpette da pallone sui campetti di oratorio e di pantaloni alle ginocchia strisciando sul pavimento di casa intorno al panno verde del Subbuteo, ho incominciato a prendere confidenza coi primi rudimenti di Critica della Ragion Calcistica avevo poco più di dieci anni. Il mio testo di riferimento era la Storia critica del calcio italiano di Gianni Brera, Bompiani, 1975. Me l’avevano regalato per la Cresima ed era un massiccio quadrello di 600 e passa pagine, compresa una compulsatissima appendice statistica sulle partite della Nazionale.
Quando ho incominciato a ruminare calcio scritto sui giornali, sulle riviste e sui libri, avevo poco più di dieci anni e, a causa dell’infatuazione di mia mamma – da ragazza era tifosissima del Gre-No-Lì – per il Golden Boy, Gianni Rivera era il mio eroe. E pensare che dal vivo l’avevo visto giocare una volta sola. Nel marzo del 1973 mio papà mi aveva portato (di malavoglia) a San Siro a vedere un Milan-Fiorentina: finì 2-0 e a segnare la doppietta della vittoria non fu però come avrei voluto il Gianni, ma Romeo, Romeo Benetti. Me la feci andar bene lo stesso.
Gianni Rivera all’epoca era alle soglie dei trent’anni e da metà della sua vita calcava il palcoscenico del football nazionale e internazionale, cioè da quando, il 2 giugno 1959, aveva esordito in Serie A, non ancora sedicenne, con la maglia grigia dell’Alessandria. Non ero ancora nato quando, nel maggio 1963, prese per mano il Milan e lo portò a vincere a Wembley la prima Coppa dei Campioni italiana. Nel maggio di sei anni dopo, il 1969, ero troppo piccolo per avere cognizione e memoria della conquista della seconda Coppa dei Campioni, quando il Golden Boy, diventato ormai uomo, squarciò il velo del tempio del Santiago Bernabeu, orchestrando alla perfezione il gioco che valse ai rossoneri la vittoria, per 4-1 sull’Ajax. I miei genitori non mi ritennero neppure abbastanza grande per farmi rimanere sveglio a guardare in diretta el Partido del Siglo, la semifinale della Coppa del Mondo di Messico 1970, quell’Italia-Germania 4-3 che è diventato il romanzo di una generazione, un romanzo in gran parte firmato Gianni Rivera.
Dunque, fino a circa la metà degli anni Settanta, l’epopea del Gianni è stata per me un mero passaggio di trasmissione orale - la mia mamma prima, gli amici più grandi poi… - e quindi, in presa diretta, una trasmissione radiofonica. Il pomeriggio della domenica Tutto il calcio minuto per minuto e i secondi tempi delle partite trasmessi mi restituivano, per parole e non per immagini, l’eccezionalità di un campione che, da quanto mi sembrava di capire, abitava più la sovrumana dimensione della luce e degli spazi che quella dei campi di calcio. Dalla voce di Enrico Ameri, Sandro Ciotti o Roberto Provenzali imparavo che Gianni Rivera, con il pallone tra i piedi, non praticava semplicemente calcio, ma "illuminava", "accendeva", "apriva", addirittura "creava" il gioco.
Come ogni vero romanzo d’appendice che si rispetti, tuttavia la biografia di Rivera è stata un susseguirsi di capitoli tutti diversi: alle vette gloriose dei successi sportivi – scudetti, coppe e palloni d’oro - si alternavano le polemiche, i passi falsi e quelli che poi si sarebbero chiamati gossip. Le polemiche erano volta per volta contro gli arbitri e il “sistema calcio” – nel marzo del 1972, dopo alcune dichiarazioni di fuoco contro il “sistema arbitrale” che accusava di favoreggiamenti alla Juventus, venne squalificato fino al termine della stagione –; contro il proprio presidente, Albino Buticchi, che si era stufato di lui e aveva deciso di venderlo al Torino; e, sulle pagine dei giornali, contro il suo grande antagonista “critico”, Gianni Brera. I passi falsi furono quelli che, tra il 1975 e il 1976, lo invischiarono nella scalata societaria per acquistare il Milan con l’appoggio di poco affidabili finanziatori – e Rivera venne salvato dalla liberalità un po’ ciula di un amico imprenditore, Vittorio Duina, che per una breve e poco fortunata fu presidente del club. I pettegolezzi, infine, lo inchiodavano sui tabloid “per colpa” i numerosi flirt che a lui, scapolo d’oro, venivano incessantemente attribuiti – nel 1977, dalla sua relazione con la soubrette Elisabetta Viviani, nacque la figlia Nicole – o per via della chiacchierata amicizia con il disinvolto frate francescano Padre Eligio.
Personalmente, seguendo Rivera, ho vissuto a nove anni, e sempre via etere, l’altalena di emozioni che racchiuse in cinque giorni del maggio 1973 l’estasi e lo sprofondo: il 16 maggio la pesta e tribolata vittoria nella finale di Coppa delle Coppe, a Salonicco, contro il Leeds; il 20 maggio il trauma infantile della fatal Verona, ascoltata dall’autoradio della macchina di mio cugino parcheggiata nella grande aia di una cascina lombarda, una Fiat 128 Coupé color verde bottiglia che, cinquant’anni dopo, abita ancora oggi i miei peggiori incubi. Poi l’anno dopo leggevo, indignato, quel che scrivevano di lui Gioannbrerafucarlo e Giovanni Arpino alla Coppa del mondo del 1974, in Germania Ovest, senza riuscire a riconoscere che, purtroppo, avevano ragione e il Gianni, in quello sciagurato torneo mondiale, "inciampava nelle primule".
Seguirono anni stentati – le tribolazioni societarie, le sfide all’ultimo sangue col Catanzaro per non finire in Serie B ante litteram – anni solo in parte riscattati dallo scudetto della Stella (1978-79), canto del cigno del “Prodigio” (copyright Beppe Viola); quindi, una volta passato il suo idolo dal campo alla scrivania dirigenziale, il milanista e il fedele riveriano continuò strenuamente ad assistere a un "doloroso romanzo di fabbrica" (copyright sempre Beppe Viola, ma questa volta insieme all’amico e compagno milanista Enzo Jannacci) fatto di retrocessioni, di cambi societari, di “campioni” stranieri poco presentabili, fino alla palingenesi (e mutazione antropologica) berlusconiana. Il Milan rinacque, ma da quella risurrezione il più grande calciatore della storia del Milan venne estromesso ed espunto come un Vangelo apocrifo, con la stessa ineducata sbrigatività con cui gli “ammericani” hanno liquidato due mesi fa un altro mito rossonero.
Gianni Rivera uscì dalla scena milanista dopo diciannove anni di calcio giocato e sei anni di dirigenza. Una lunga fedeltà che non trovò analogie nella sua seconda vita da uomo politico, anche – bisogna dirlo – non per sua volontà ma per il frammentato, incerto e volubile orizzonte della storia del centro-sinistra italiano: eletto nel 1987 alla Camera dei deputati nelle liste della Democrazia Cristiana, nei venticinque anni a seguire nell’agone politico nazionale vestì le “livree” del Patto Segni, della Margherita, dell’Ulivo e infine della Rosa di area tabacciana, con in mezzo una furtiva sbandata sul centro-destra quando alle amministrative del 2011 sostenne la candidatura a sindaca di Letizia Moratti. Nessuna sbandata di sorta quando invece, nel 2012, si esibì volteggiando la sempre folta ma argentea zazzera al fianco di una bionda sul set del programma di varietà televisivo Ballando con le stelle (chissà però cosa avrebbe pensato, vedendolo, Nereo Rocco, il suo padre-Paròn: "Ostrega, Giovanìn, ma va in mona!").
Credo sia più elegante, come se fosse una delle sue finte, sorvolare su una autobiografia del 2015, Rivera ieri e oggi, edita e commercializzata (a chilo) dalla moglie Laura Marconi (libro che, in ogni caso, ogni riveriano, quorum ego, non può non avere…); così come sulle ancora più recenti sue esternazioni circa del desiderio, ottenuto il patentino dalla Federazione, di allenare una squadra di calcio (in questo caso il commento sonoro rimanda allo zio di Jannacci ne La forsa de l’amore).
Ma, tornando a bomba, nel giorno del suo ottantesimo compleanno come si fa a spiegare a un ragazzo di oggi chi è stato Gianni Rivera?
Spiegarlo ad esempio a mio figlio che è nato nel 1999 ed è cresciuto con le favole di Marco Van Basten e con le partite di Shevchenko e Kakà. Forse a loro consiglierei anche di risparmiarsi tutto il precedente pippone e di aprire YouTube. Qui a seguire sotto il titolo Chiedi chi era Rivera c’è una playlist di cinque pezzi facili:
1_Il tacco del Bernabeu
28 maggio 1969, Madrid, Stadio Santiago Bernabeu. Finale di Coppa dei Campioni: Milan-Ajax 4-1
Al 40’ del primo tempo, Rivera porta palla sulla trequarti e porta a spasso la difesa dei lancieri. Pierino Prati gli gira alle spalle e lui lo smarca con un colpo di tacco. Staffilata a fil di palo di Pierino la Peste e 2-0.
2_Tormento ed estasi all’Azteca
17 giugno 1970, Città del Messico, Estadio Azteca. Semifinale di Coppa del Mondo: Italia-Germania Ovest, 4-3
È il 5’ del secondo tempo supplementare. L’Italia è in vantaggio per 3-2 e i tedeschi vanno a battere un calcio d’angolo. Il traversone è lento e lenta la parabola incocciata dalla testa di Uwe Seeler: Albertosi la sta a guardare, tanto, pensa, sul palo c’è Rivera, ci penserà lui a respingere. Niente affatto. Il Gianni goffamente oppone i pettorali che non ha e la palla s’insacca. Rivera, disperato, abbraccia il palo; Albertosi vorrebbe abbracciare Rivera però per strozzarlo. Brera dando fondo al suo repertorio di studente liceale scrisse: «Pensai, riflettendoci, al duello fra Achille e Ettore sotto le porte Scee. Achille scagliò la lancia: Ettore la schivò: Pallade Atena la raccolse per ridarla al Pelide: allora il prode figlio di Priamo si accorse che la sua sorte era segnata. Una Pallade Atena che poteva benissimo chiamarsi Eupalla evitò a Rivera lo strangolamento da parte di Albertosi e gli offrì benigna la palla di Bonimba che significò il suo trionfo». Infatti non passa che un minuto che Rivera, mestamente, tocca dal cerchio di centrocampo per Facchetti che allunga per Boninsegna. Fuga disperata sull’out sinistro, cross basso dal fondo all’indietro e, come un rinvigorito Apollo, ecco che un trotterellante Rivera, appena dentro l’area, appoggia il piatto destro a incrociare: pallone in un angolo (il destro) e Sepp Maier dalla parte opposta.
3_Il tram dei desideri
24 dicembre 1978, Milano: tram numero 15.
In una vigilia di Natale, Beppe Viola s’inventa un servizio per la Domenica sportiva intervistando Gianni Rivera sul tram, il numero 15, quello che dal centro porta a San Siro. Parlano di un po’ di tutto, mica solo di calcio: 50 minuti di varia umanità e di umanesimo televisivo (anche grazie al Beppe).
4_L’uomo col microfono
6 maggio 1979, Milano, Stadio San Siro: prima di Milan-Bologna.
È la penultima giornata del campionato 1978-79 e al Milan basta pareggiare in casa col Bologna per aggiudicarsi matematicamente lo scudetto, il decimo, quello della tanto agognata Stella. Ma prima del match alcuni dei numerosi tifosi accorsi a San Siro per assistere alla festa che tutti si aspettano hanno preso posto in alcuni settori del secondo anello non agibili, per via di una ristrutturazione in corso. Rivera è costretto a prendere un microfono e a fare un appello al pubblico affinché sgombrino le gradinate vietate e si possa dare inizio alla partita (un ulteriore ritardo avrebbe dato la vittoria a tavolino al Bologna e messo così a serio rischio il risultato del campionato). Il tifoso di Reggio Calabria che accoratamente si rivolge al tribuno Rivera è la variante da stadio della Vincenzina davanti alla fabbrica.
Ma la testimonianza video che forse contiene in sé, quasi fosse una premonizione, la sintesi umana e sportiva della carriera di Gianni Rivera, è quella che ci riporta indietro, al 1963, e a un “Giovane Golden” di non ancora vent’anni.
5_L’impermeabile di Wembley
22 maggio 1963, finale di Coppa dei Campioni: Milan-Benfica 2-1
A parte le voci alternate di Nicolò Carosio e Beppe Viola (ma questa è un’altra storia) e a parte i due assist (ma era più bello quando si diceva palla-gol) ad Altafini, la cosa che bisogna notare è la scena della premiazione. Mentre Cesare Maldini alza la coppa in tribuna alla sua sinistra c’è lo zazzeruto Rivera che si stringe in un impermeabile. Prima, sul campo, un’orda di tifosi si erano impossessati della sua maglia e dei suoi pantaloncini. Per non restare in mutande gli avevano prestato un impermeabile di qualche taglia più grossa della sua. Ho sempre pensato che quell’impermeabile potesse essere il correlativo oggettivo dell’inimitabile personalità, della divina indifferenza di Gianni Rivera e che la sua colonna sonora potesse assomigliare a una canzone scritta da un avvocato non alessandrino, ma astigiano, però milanista: "Ma come piove bene su / gli impermeabili / e non sull’anima".