Il. Foglio sportivo
Ma sono calciatori o robot? Come è cambiata la preparazione
Il ruolo di medicina e tecnologia, dall'analisi di ciò che avviene in campo agli allenamenti infiniti a ritmi forsennati, nei ritiri estivi. E ora si inizia a giocare
Era il 21 giugno 1997 quando Ronaldo, quello vero direbbe qualcuno, atterrava nell’universo Inter. Sembrava un alieno, una miscela esplosiva di talento e potenza racchiusa nel brasiliano con il diastema più simpatico del calcio. Anche uno così, però, aveva il suo tallone d’Achille: “Pativo ogni anno le preparazioni estive. Mi uccidevano. Già nelle vacanze soffrivo per il test di Cooper che avrei dovuto fare in ritiro”, raccontava qualche anno fa. Doveva correre e perdeva il sorriso: diventava umano, o quasi.
Già. Il Fenomeno trascorreva con angoscia le vacanze al solo pensiero di dover correre per 12 minuti al massimo della velocità. Oggi i calciatori non hanno neanche il tempo di pensarci: si tengono in forma e senza compromessi, anche in ferie. Tra un tuffo al mare e una foto in famiglia, in tanti hanno postato stories di duri allenamenti, come se fossero già pronti a tornare da allenatori e staff per essere forgiati come gladiatori o pedine da risistemare sulla scacchiera. Merito o perversione social, chissà.
In ogni caso, la più grande differenza rispetto al passato sta proprio là: i professionisti del pallone faticano tutto l’anno senza sosta, individualmente e in gruppo, ed è di fatto la condizione indispensabile per scendere in campo. Secondo Daniele Tognaccini, ex preparatore atletico del Milan nei primi 2000, la suddivisione del lavoro, però, è la stessa da tempo: “In genere, tutti usano carichi omogenei fino a marzo o aprile e poi, se la squadra è in gioco per obiettivi importanti, sfrutta il lavoro fisico fatto fino a quel momento”. D’estate si mettono solo, si fa per dire, le basi per sfoggiare la forma migliore a primavera, esattamente al confine tra il successo e le lacrime. Peccato che, intanto, il calendario si sia trasformato in un tour de force. Perché se a luglio si sudava anche prima, e chi si è fatto i gradoni con Zeman ne sa qualcosa, è la politica del calcio che ha imposto un’accelerata netta: gli specialisti devono tararsi su stagioni in cui, se tutto va per il meglio, si giocano più di 50 partite – l’Inter ha disputato 57 match la stagione scorsa, la Fiorentina è arrivata a 60. È un’enormità, anche per chi ha rose lunghe e può permettersi rotazioni continue per preservare i calciatori.
Se quest’anno è stato una maratona, i prossimi non andranno meglio. Le tournée intercontinentali, il nuovo format della Champions League, Mondiale per club e nazionali e le sfavillanti Final Four di Supercoppa italiana rendono ancora più fitta l’agenda. Costano viaggi e fatica sulle gambe, ma valgono tanto e i conti ringraziano. Prima il denaro, sempre. E la stanchezza rimane. La salute, invece, viene compromessa da tutti questi impegni? Per Ivo Pulcini, medico dello sport, da anni nel mondo del calcio, “tante partite, forse troppe, giocate in una stagione possono incidere sul benessere degli atleti”. Tra i rischi ci sono “la sindrome da sovrallenamento, o astenia neurocircolatoria, che può portare prestazioni fisiche inferiori, ma anche crampi muscolari, diminuzione dell’attività meccanica, mnemonica e di attenzione – spiega – Soprattutto può arrivare l’insonnia e il riposo è fondamentale. I calciatori sono esseri umani, non delle macchine”.
Ecco. Asimov nel 1950 pubblicava Io, robot, una raccolta di racconti fantascientifici in cui confutava le leggi della robotica mostrandone contraddizioni, fragilità e di fatto l’imperfezione. I calciatori non sono tanto diversi: sono costretti a rincorrere il massimo, ma devono fermarsi un gradino prima del crollo. Capita spesso di forzare la mano e pagarne le conseguenze con stop più o meno lunghi, e vale anche per il precampionato: “Gli infortuni si possono ridurre se gli atleti seguono una preparazione adeguata, senza sovraccarichi funzionali, un’alimentazione corretta, detta allenamento invisibile, e una perfetta idratazione”, afferma ancora Pulcini. I robot, però, più che altro le nuove tecnologie possono essere anche una risorsa indispensabile. Dall’analisi di quello che succede sul rettangolo verde, si ottiene una raccolta di dati utili per individualizzare i programmi di lavoro: chilometri percorsi, traiettorie e heat map, per esempio. Si tratta di una quantità enorme di informazioni, decisive per cambiare il destino delle partite: “Quando ho iniziato c’era il cardiofrequenzimetro e poco altro – racconta Tognaccini – Man mano sono arrivati nuovi strumenti. Abbiamo iniziato a raccogliere misure sia attraverso le immagini tv, sia con il gps, poi con sistemi ancora più precisi”.
Anche nel mondo della medicina la rivoluzione è arrivata, stravolgendo i metodi di valutazione: “Esistono parametri che indicano la capacità di adattamento del cuore allo sforzo. Ci sono sistemi ancora più sofisticati, come il Sudden Death Screening, che possono prevedere una morte improvvisa in campo con qualche anno di anticipo – dice Pulcini – E nell’ambito della tutela sanitaria degli atleti, è una conquista siderale”. Quindi, le differenze ci sono e non solo in palestra o sul pc. Perché tra corse infinite e ritmi forsennati, il calcio è cambiato, e con lui anche il modo in cui i giocatori si preparano, appunto. È impossibile tornare indietro, e andrà bene anche così, ma siamo certi che non siano gli atleti stessi ad abbandonare la nave? Tanti campioni hanno già scelto i soldi e i ritmi più blandi dell’Arabia Saudita: è ragione, molto più che cuore, ma ci si allunga la carriera e si fattura di più, a costo dell’oblio nelle élite europee. Houellebecq scriveva in Sottomissione che “la nostalgia non è legata al ricordo della felicità”, e allora, forse, non è per forza nel passato che dobbiamo cercare qualcosa di meglio. Il calcio deve ancora costruirselo il suo etere sconfinato, il compromesso tra le esigenze meccaniche e quelle estetiche. La parte atletica si adatterà di conseguenza, ma non può essere sempre serva dei parametri economici, e neanche lo spettacolo. Perché, questa no, non può essere la strada giusta.