Il Foglio sportivo
Tutte le invenzioni di Luciano Spalletti, nuovo ct della Nazionale
Alla scoperta dell'allenatore che sa far festa anche da solo. Guidare gli Azzurri è un suo sogno e per l'Italia un'opportunità perfetta, ma dovrà imparare a smussare gli spigoli di un carattere che lo ha reso unico
Luciano Spalletti è una storia d’amore. Però non una di quelle storie d’amore zuccherose e rassicuranti date in pasto al pubblico di Rai1, la rete su cui lo vedremo in esclusiva per i prossimi anni ora che è diventato ct della Nazionale. No: una storia tempestosa, rovello interiore, sturm und drang, più Oppenheimer che Barbie. Perseveranza, pignoleria, puntigliosa passione che lambisce l’ossessione: è “un dirimpettaio della follia” secondo Walter Sabatini, definizione mirabile da parte di un uomo che per molti aspetti gli è affine, e più volte non ha esitato a dargli del genio.
Spalletti ha fatto della complessità una ragione di lavoro e forse di vita. Ha chiarito il concetto due mesi fa in diretta su Sky, quando ha interrotto uno dei suoi discorsi voluminosi, pieni di voluttuose figure retoriche, con un attacco frontale a caldo inspiegabile: “Che il calcio è facile, lo sanno dire tutti!”. Sembrava un riferimento alle opposte convinzioni di Massimiliano Allegri, di cui molti sussurravano stesse per prendere il posto alla Juventus, complice l’arrivo di Cristiano Giuntoli; ma a pensarci meglio – come ha scritto proprio sul Foglio Alessandro Bonan, che lo conosce bene – era il grido d’orgoglio di un uomo che a 64 anni aveva appena vinto il suo primo scudetto col sudore della fronte, senza mezzucci o scorciatoie, senza una carriera da predestinato, senza nemmeno una presenza in Nazionale: al massimo, lui dell’Italia è stato avversario, in un’altrimenti dimenticabile amichevole Empoli-Italia 0-1 del 1992, di cui è possibile rintracciare sul web la memorabile foto di un Luciano ancora capelluto a un metro di distanza da Roberto Baggio.
Spalletti si è meritato tutto. La tenacia lo ha contraddistinto anche nei sentimenti, se dobbiamo dare credito al bellissimo aneddoto raccontato da Mario Sconcerti su come aveva conosciuto sua moglie, nel periodo in cui giocava a La Spezia: Tamara vendeva porta a porta abbonamenti all’Unità e lui, pur di rivederla e strapparle il fatidico primo appuntamento, fu disposto ad abbonarsi decine di volte per leggere gli editoriali di Massimo D’Alema. Ma siccome sul privato l’uomo è giustamente schivo, giudichiamolo dal campo: dieci tornei di Serie A consecutivi sopra i 60 punti, portando in Champions League quattro squadre diverse (Udinese, Roma, Inter, Napoli), sempre da aziendalista, mai lamentandosi del mercato, sempre cesellando, sempre migliorando il materiale a disposizione: ha inventato Brozovic regista, Totti falso nove, Nainggolan trequartista, Di Lorenzo terzino tuttocampista alla Alexander-Arnold. Ha fatto di Lobotka il playmaker più esatto del campionato e ha (già) fatto bene alla Nazionale svelando al mondo le doti da assaltatore di Perrotta, poi riproposto pari pari da Lippi ai Mondiali 2006. Conserva ancora un entusiasmo genuino per la tattica, le cose di campo, come si può notare su YouTube in tante interviste in cui spende appassionati minuti a dissezionare quel taglio o quel movimento alle spalle della difesa. Soprattutto – ed è la qualità che più di tutte ne fa un candidato ideale per la poltrona di ct – ha una soluzione per tutto, una duttilità naturale che lo ha fatto arrivare primo, perlomeno ad alti livelli, su tante intuizioni, dal 4-2-3-1 che fece saltare il banco europeo a metà anni Duemila alla difesa “tre e mezzo” con Florenzi a metà tra difesa e centrocampo, esperimento potenzialmente replicabile anche ora in azzurro con i tanti esterni a disposizione.
Manipola, Spalletti: il tempo, lo spazio, le persone che lo circondano. Quasi sempre a fin di bene, salvo che coi giornalisti, una categoria professionale che in buona parte non capisce e in alcuni casi detesta. Così lo vedi Luciano, con occhi apparentemente di brace, sguardo da matto, accostarsi al timido bordocampista di turno e sfidarlo, psicanalizzarlo, rispondergli a tono per sentire l’effetto che fa. Sul tema c’è una casistica sconfinata che Internet ha reso immortale. Non ama le banalità e ride sarcastico delle semplificazioni; sopra ogni cosa odia la manfrina politica e mediatica da cui tante volte purtroppo è investito, a cominciare dal pasticciaccio di Totti che lo portò a un passo dall’esaurimento nervoso. Che poi lui Totti lo adora, lo ha sempre adorato, e davvero ne conserva tutte le maglie nella sontuosa collezione privata. E il tempo gli ha dato anche ragione. Ogni tanto ha promesso di tornare a freddo a ragionare sull’episodio, ma non l’ha ancora fatto. Dopo sei anni il dispiacere è rimasto intatto, ma non c’è mai stato alcun risentimento.
Dicono che sia pazzo, che non sappia gestire la pressione, come se non fosse stato Spalletti l’allenatore della miglior stagione della storia della Roma (87 punti, 2016-17), o l’allenatore dello scudetto del Napoli dopo 33 anni, o l’allenatore che ha governato uno spogliatoio a pezzi dopo il caso-Icardi portando ugualmente l’Inter in Champions League. Critiche di gente pigra con poca fantasia. Invece la testa di Spalletti è una mongolfiera di stimoli, idee, passioni che ti tolgono il sonno e ti tengono attivo su Whatsapp anche alle quattro del mattino. La Nazionale è nell’ordine un sogno, l’obiettivo di una vita e anche l’opportunità perfetta di riavvicinarsi a casa e alle radici: Coverciano è a un’ora di macchina da Montaione, il paesino in provincia di Firenze dove sorge La Rimessa, agriturismo, fortezza e buen retiro, luogo dell’anima, rifugio del samurai. I due grandi spaventapasseri nel cortile portano i nomi di Carl e Marce, ovvero Carlo e Marcello, gli uomini più importanti della sua vita, suo padre e suo fratello, due querce a cui ha dedicato il primo scudetto e tante altre cose.
Spalletti riporta passione in un ambiente esangue, reso pallido dagli ultimi mesi di chi lo ha preceduto: ma ce la farà a essere di tutti? Uno degli uomini più ruvidi, divisivi ed enigmatici degli ultimi 25 anni del nostro calcio riuscirà a compiere la necessaria svolta nazional-popolare? Di solito i ct vengono invitati a Sanremo solo quando vincono: lui, che showman è nell’istinto ancor prima che nella testa, saprebbe furbamente vestire i panni dell’uomo forte di cui questo sventurato paese ha ciclicamente bisogno. Con quell’eloquio raffinato e scatenato, ha tutto per essere il Mattarella della situazione; ma dovrà fare attenzione a questa Federazione che a sua volta non vede l’ora di addossare a una persona sola tutto il peso tecnico del mondo, come ha fatto con Mancini in un modo che alla fine ha indispettito Mancini stesso. Dovrà imparare a essere meno malmostoso o semplicemente più prevedibile, esultare quando c’è da esultare, sorridere quando c’è da sorridere, non come faceva a Napoli quando, per terrore di perdere l’equilibrio, più i suoi strabiliavano (5-1 alla Juve, 6-1 all’Ajax...) più nei post-partita indossava la maschera da funerale. Dovrà essere meno toscano di campagna e più italiano. Dovrà unire, ma anche rassegnarsi a dividere, perché questo splendido e maledetto lavoro ti obbliga a essere incudine e martello, pastore di anime ma anche eremita. Ha detto una volta Luciano Spalletti: “Ci sono delle feste che si fanno con tanta gente, e ci sono delle feste che si fanno anche da soli”.
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