a canestro
Il basket nelle Filippine ha una logica tutta sua
Può uno stato dove la pallacanestro è lo sport più seguito, amato e praticato avere pochi giocatori di livello internazionale? Sì, accade in uno degli stati che stanno organizzando il Mondiale. Lì conta soprattutto divertirsi
Si pensi soltanto a questo: venerdì 25 agosto 2023 il governo delle Filippine ha indetto festa nazionale, chiudendo le scuole e gli uffici. Altro che repubblica, lavoro, religione o qualunque altra celebrazione vi venga in mente. È semplicemente il giorno in cui inizia il Mondiale di basket. Il più importante di tutti, perché l’arcipelago del Pacifico è uno dei tre paesi ospitanti. E qui andare a canestro non è uno sport, ma un fenomeno di culto. Non basta la storia – il dominio coloniale degli Stati Uniti, che importarono la palla a spicchi a inizio Novecento – per spiegare perché. Non basta il talento Nba di Jordan Clarkson – enorme, ma solitario – per raccontare come il debutto contro la Repubblica dominicana sia stato più simile a un concerto rock che a una partita. Gli urletti dagli spalti per ogni ciuf della retina. Il fiume di applausi sulla sirena nonostante il ko di misura, che di fatto mette i Gilas già spalle al muro nella competizione. Sorridono tutti. Perché oggi è un giorno di festa, appunto.
Si dice che nelle duemila isole abitate del paese ci siano quasi 25mila campi da basket. La conta va presa con le pinze perché vale un po’ tutto, dalla palestra indoor al canestro sbilenco appeso fra le liane tropicali. Eppure non mente: l’importante è poter giocare. Che ci sia il sole o la pioggia dei tifoni. Le Filippine sono uno dei due posti al mondo – l’altro è agli antipodi, la Lituania – in cui la pallacanestro è per distacco il primo sport nazionale. Ma a differenza dell’autorevole scuola baltica, fatica a coltivare talento. E forse la crescita del movimento interessa fino a un certo punto. Pazienza per la passione viscerale, una lega professionistica a immagine e somiglianza dell’Nba e l’impiantistica all’avanguardia – la Philippine Arena di Manila, dove sono appena scesi in campo Clarkson e compagni, fa 55mila posti e non è una cattedrale nel deserto. Il fatto è che da queste parti il basket ha una logica tutta sua, fatta di freestyle, assoli individuali e insofferenze tattiche: conta divertirsi come al campetto – dove i filippini, pure nei nostri, danno spettacolo spesso e volentieri.
Ad alti livelli poi spicca il bronzo conquistato ai remoti Mondiali del ’54, quando lo sport era un altro. E le Filippine facevano di tutto per cambiarlo. Nel modo più impensabile: pochi anni più tardi si spesero per spostare il livello dei canestri a quota 3,66 metri – 61 centimetri in più dell’altezza convenzionale. Un paradosso, per una delle popolazioni statisticamente più basse del mondo. L’idea sottostante è che a sparare in aria ogni vantaggio fisico si sarebbe annullato. Fu a Milano, nel 1964, che si disputò una leggendaria partita sperimentale con i super canestri. La riforma non ebbe seguito, e con essa il ruolo delle Filippine al tavolo dei grandi. La vittoria sul Senegal ai Mondiali del 2014 ha interrotto un digiuno quarantennale. L’impresa oggi sarebbe tornare a esultare in casa, almeno una volta – domenica contro l’Angola è da dentro o fuori. Ma gli occhi increduli di Clarkson, disciplinati dalla competitività americana, dicono tutto: la sua squadra ha appena buttato via un’occasione storica, perdendo nel finale un match condotto fino al 37’. Eppure, quando l’insospettabile Fajardo esegue un trick sotto canestro, si sente solo il “waaaaaa” del pubblico in visibilio. Potrebbe anche bastare così.