Il Foglio sportivo
“Io, Chinaglia e Maradona”. Intervista a Bruno Giordano
I ricordi dell'ex attaccante di Lazio e Napoli: “Non ho mai perdonato la giustizia sportiva”
La mia infinita passione per il calcio nasce fra i vicoli e le piazze di Trastevere. Da bambino passavo le mie giornate per strada. Vicolo del Cinque, Piazza Renzi e il piazzale davanti alla Basilica di Santa Maria erano i nostri stadi e il nostro mondo. Se non ci fosse stata la scuola, saremmo rimasti lì, senza mai fermarci, dalla mattina alla sera. Oggi tutto questo non c’è più. I ragazzi utilizzano poco le strade, anche perché sono piene di automobili e pericolose. Preferiscono, come è normale che sia, andare a giocare e a sognare nelle scuole calcio, su campi in erba sintetica senza avvallamenti e buche. Noi, invece, conoscevamo solo l’asfalto e i sampietrini”.
Bruno Giordano, figlio prediletto del rione cuore e simbolo di Roma, racconta con l’entusiasmo di un ragazzo di 67 anni sé stesso e l’epopea di una vita, che lo ha portato a diventare l’idolo di due città e a vincere uno scudetto, giocando, fianco a fianco, con il dio pagano del pallone Diego Armando Maradona.
“Alla Lazio arrivo nel 1969, a 13 anni. Quando, cinque anni dopo, la squadra del mio cuore vince il suo primo scudetto, io già stavo con quelli della Primavera ed è capitato che mi aggregassero alla prima squadra, insieme a Lionello Manfredonia e ad Andrea Agostinelli. Anche solo respirare l’aria, dove si muovevano Giorgio Chinaglia, Luciano Re Cecconi, Pino Wilson e Vincenzo D’Amico, ci faceva sentire in capo al mondo”.
Lei esordisce in prima squadra a Genova contro la Sampdoria ed è subito gol…
“Certe date non si scordano mai. È il 5 ottobre del 1975. Vinciamo all’ultimo minuto e il gol della vittoria lo segno io, dopo un bel fraseggio e un tiro di Chinaglia. Mi ricordo che un attimo dopo il gol l’arbitro ha fischiato la fine. Non ho mai dimenticato niente di quei momenti. Re Cecconi, una persona splendida che ha lasciato un segno indelebile sulla mia vita, era più felice di me”.
Con la Lazio, che era la sua passione e il suo sogno da bambino, ha vinto poco o niente…
“Con la Lazio, a livello personale, ho vinto la classifica dei cannonieri sia in Serie A che in Serie B, il campionato Primavera e quello De Martino, che era simile a quella che oggi è l’Under 23. Tutte grandi soddisfazioni, ma l’acuto di squadra non è mai arrivato. Dopo lo scudetto la Lazio e io stesso siamo stati spiazzati da una lunga e dolorosa serie di tragedie ed eventi imprevedibili. Prima la morte di Tommaso Maestrelli, poi quella tragica di Re Cecconi. Chinaglia, che di quella squadra era l’anima e il portabandiera, se ne va a giocare nei Cosmos di New York. Quel meraviglioso gruppo vincente si è andato, a mano a mano, sgretolando”.
A proposito di Chinaglia, i tifosi avevano sognato, prima del suo trasferimento negli Stati Uniti, che giocasse a lungo al suo fianco. Sareste stati la coppia più bella di tutta la storia della Lazio…
“Insieme avremmo potuto fare grandi cose e, invece, la coppia più bella è durata solo un anno. Giorgio ha giustamente deciso di andare in America, perché qui la sua vita era diventata impossibile. La sua scelta è stata un altro segnale che la Lazio del grande sogno stava sparendo, a dispetto di tutto l’amore che ancora l’inondava”.
Il gol più bello resta quello segnato il 12 ottobre 1977 alla Juventus…
“Sì, credo che uno dei due che ho realizzato quel giorno sia il mio gol più bello, anche perché a difendere la porta della Juventus c’era un mostro sacro come Dino Zoff. Quel doppio pallonetto, prima per liberarmi al tiro e, poi, per scavalcare il Dino nazionale, lo considero la mia prodezza più grande”.
Poi arrivano, come un terribile fulmine a ciel sereno, l’arresto allo stadio, il carcere, la lunga squalifica e la Lazio retrocessa in Serie B per lo scandalo del calcioscommesse. C’è qualcosa che si rimprovera, a prescindere da come è finita?
“Io non ho nulla da rimproverarmi. A distanza di più di quaranta anni, non ho ancora capito perché mi hanno squalificato. Io non avevo fatto assolutamente niente di sbagliato. Purtroppo all’epoca, come del resto anche oggi, basta che qualcuno dica qualcosa e ti ritrovi squalificato da quella che chiamano giustizia sportiva”.
Fu un grande dolore?
“È stata, soprattutto, una grande ingiustizia. Ho perso, all’improvviso, la possibilità di partecipare ai Mondiali del 1982 e, conseguentemente, di diventare campione del mondo. Fui estromesso da un sogno, per colpa di una squalifica assurda, che è poi stata contraddetta, in tutto e per tutto, dall’assoluzione con formula piena, con cui si è concluso il processo penale. È l’unico grande rimpianto della mia vita. Purtroppo, la giustizia sportiva ha sempre funzionato, come vogliono loro”.
Poi, però, nella sua vita entrano il Napoli e Maradona…
“La Lazio, ed è una storia che nel tempo si è ripetuta più volte, aveva bisogno di soldi e poteva far cassa solo con me e Manfredonia. Lionello andò alla Juventus e io scelsi il Napoli, perché mi volevano a tutti i costi, a partire da Italo Allodi e dallo stesso Maradona. È stata una scelta, di cui vado ancora orgoglioso”.
Che cosa è stato per lei il Napoli, al di là dello scudetto?
“Sono state tre stagioni meravigliose. Nell’anno dello scudetto abbiamo conquistato anche la Coppa Italia, vincendo tredici partite su tredici, con me nella veste di capocannoniere. La gente sembrava impazzita per la felicità. Giocare accanto a Diego, a Giuseppe Bruscolotti, a Salvatore Bagni, a Ciro Ferrara e avvertire sulla pelle il legame viscerale e indissolubile con il popolo napoletano, che mi accompagnerà sino alla fine dei miei giorni, sono stati il sogno di una vita, che si avvera”.
Maradona ha detto una volta che lei era il più sudamericano di tutti i calciatori italiani. Che rapporto aveva con lui?
“Ho avuto la fortuna di conoscere sia il Diego Maradona che stava in mezzo al campo, sia quello che era prima e dopo. Sono più contento di aver conosciuto Diego più come uomo che come calciatore. La nostra amicizia è durata quaranta anni. Io e Diego ci conoscevamo dal 1979. Purtroppo la sua vita si è interrotta troppo presto e in un modo, brutto e misterioso, che è difficile da accettare. Solo chi ha avuto la fortuna di conoscere la persona, può capire quale meravigliosa esperienza umana, prima che sportiva, ho vissuto con lui e quanto Diego mi manchi”.
Le piace il calcio di oggi?
“È un calcio con più tattica e meno fantasia. I grandi campioni ci sono anche oggi, ma, se ai miei tempi ce n’erano cento, oggi si sono ridotti a trenta. È questa la grande differenza fra il calcio di ieri e quello di oggi. I tifosi non vogliono vedere la tattica, ma le giocate. La gente va allo stadio attende che si accenda la luce di una giocata. È anche un modo per rivedersi bambini, quando, per strada o sui campetti di periferia, provavi a fare dei numeri per distinguerti dagli altri e sognare. Erano altri tempi. Quei bambini sembrano spariti”.
Che cosa ruberebbe al calcio di oggi?
“Del calcio giocato niente. Forse mi mancano i centri sportivi e certi stadi. Sia alla Lazio che al Napoli avevamo solo un campo, che il più delle volte era spelacchiato”.
I giocatori simbolo e tifosi tendono a sparire. Oggi tutti sognano di trasferirsi, a suon di decine di milioni di dollari, in Arabia Saudita…
“Questo è il calcio che hanno voluto non solo i giocatori, ma tutti, a partire dai presidenti. All’interno delle società raramente trovi ex calciatori e bandiere riconoscibili. Sono i presidenti a dare gli input sbagliati. È diventato un calcio molto mercato e poca passione e in un mercato è normale che i giocatori vadano dove ci sono più soldi”.
Non mi sembra che il ventottenne Sergej Milinkovic-Savic, che ha lasciato la Lazio per andare a giocare nella blasonata squadra araba dell’Al-Hilal, non potesse più giocare ad alto livello. Forse, anzi senza forse, ha scelto i soldi…
“Si dice che Milinkovic poteva fare grandi cose, ma fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. La verità è che Milinkovic non aveva mai avuto richieste importanti. Anche io posso pensare di essere l’allenatore del Real Madrid, ma se poi non mi chiamano… Milinkovic grande giocatore è stata una creazione collettiva. È stato pompato in modo esagerato. È un gran bel giocatore per il nostro campionato, ma in Europa e con la sua Nazionale non ha fatto grandi cose. Se il Real Madrid avesse voluto Milinkovic, stava là e non all’Al-Hilal. Ci sono dei giocatori sopravvalutati e altri che valgono sino in fondo quello che costano”.