Il cuore è l'unico luogo in cui sentirsi a casa. Il libro postumo di Roberto Perrone
"La vita che non voglio" è un mix di atmosfere simil-montalbaniane classiche della Sicilia ospitale, che avvolgono di sapori salini e poesia una narrazione e una scrittura capaci di scendere nel dolore profondo dell’anima e, al tempo stesso, sprizzare vita da ogni poro
Una sosta forzata. Il contraccolpo di un incontro, che cambia il corso delle cose, ferma tutto, e fa male. Urtica. Spalancando scenari insospettati, rovescia un’intera esistenza. O quantomeno costringe a ripensarla. Eppure sì, quando accade non può che essere provvidenziale. E perciò salvifico. Lena e Patrick sono uguali, ma lontanissimi. Bella e giovane donna italiana, lei, cronista in carriera nel più importante giornale del paese; attempato sacerdote tedesco, lui, anzi di più: vescovo di una diocesi come quella di Mainz. Prigionieri della propria solitudine, entrambi in fuga. Da un passato che non avrebbero voluto diventasse lo stantio presente in cui si trovano imbrigliati. Da una storia che, per diventare destino, ha bisogno di essere accolta, non solo accettata. Altrimenti rimane una dannazione. Per poter rifiatare, insomma, bisogna correre. Lontano da se stessi, al centro di se stessi.
Lena da tempo, troppo, ama un uomo, o è convinta di amarlo. B.G., “il” grande giornalista da tutti riconosciuto e adulato, che la tratta con il contagioso ma sufficiente magnetismo piacione di chi sa “che non deve chiedere mai”, con due matrimoni e figli sul groppone. Insomma, il ménage che appare tanto avventuroso, ma che è invece trita banalità, in cui le regole del gioco sono sempre incredibilmente chiare, o paiono esserlo: uno comanda, l’altro segue. Il punto è: chi dei due?
Monsignor Kessler è il sacerdote fattosi intellettuale, che da sempre possiede quella soprannaturale vocazione “ad abbracciare l’amore di Dio” attraverso la conoscenza, ma che, a un certo punto, deve accettare la chiamata più alta a farsi pastore per il bene della Chiesa (d’altronde “al Papa non si può dire di no”), finendo per trovarsi a subire la propria espressa inadeguatezza. Ma in fondo: non basterebbe aderire al reale?
(Ri)trovano se stessi nel ristoro trapanese di un’amica, Anastasia detta Ani, la vera “pupara” del racconto, che la finzione narrativa di Roberto Perrone – penna magnifica del Corriere della Sera, andatosene troppo presto, famoso per la saga di Annibale Canessa e il primo, che rimarrà unico, romanzo sul commissario Toscano – fa sparire per qualche tempo lasciando spazio alla “chimica” di un’amicizia inattesa che li unisce. E’ questo La vita che non voglio (HarperCollins, 240 pp., 18,50 euro). In un mix di atmosfere simil-montalbaniane classiche della Trinacria ospitale, che avvolgono di sapori salini e poesia una narrazione e una scrittura capaci di scendere nel dolore profondo dell’anima e, al tempo stesso, sprizzare vita da ogni poro. Come “Fred Perri”, così si firmava su alcune rubriche, che ha fatto appena in tempo a completare un testo che è confessione e introspezione psicologica, incalzante e delicato, nel quale le solitudini di tutti i personaggi coinvolti trovano luce, e perciò liberazione, nella relazione con gli altri.
Perché sì, è proprio vero: “Il peccato più diffuso è l’irresolutezza nei confronti del proprio io”. E così della vita. Anche quella che non vuoi. Ma che, se sai coglierne i segni al momento giusto, diviene il porto che non vorresti lasciare mai. L’unico luogo dove sentirsi a casa. Il cuore.