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Crocicchi #3

La rivincita di Radonjić contro Ivan Jurić

Enrico Veronese

Dopo un periodo difficile, il serbo, partendo dalla panchina in Torino-Genoa, segna la rete vincente e sfoga tutta la propria frustrazione

Torino-Genoa, quindici titoli prima del Cinquanta, sa di partite a bocce lungo Po, busiarde lette col monocolo al Valentino, cognac e vermouth alla prima piola la domenica mezzodì. Tanta appartenenza, e un lungo gemellaggio rotto nel 2009, quando i rossoblu sbancarono lo stadio del Toro mandandolo in B alla penultima giornata. Spalti gremiti al limite della capienza nei settori popolari, nonostante i quarti di nobiltà, per ringraziare un giovane non-capitano che ha deciso di rimanere e di non cedere alle lusinghe di un mercato invasivo senza più limiti.

Il match è bloccato sullo 0-0, risultato giusto poiché se il Genoa si limita a tenere ordine, i granata in fondo non sono stati mai davvero pericolosi. Duván Zapata, atteso come il Messia(s) e stella di un mercato di consolidamento, fa sportellate ma punge poco, mentre Pietro Pellegri non fa rimpiangere Antonio Sanabria mettendoci il fisico e la testa. Dalla panchina -oltre al giovane italiano- si alzano Ivan Ilić, Demba Seck e più tardi Valentino Lazaro: Yann Karamoh li guarda, stavolta non tocca a lui.

Nemanja Radonjić sperava di giocarla dall’inizio, questa partita. Uno come il serbo, che vede solo il pallone, vorrebbe sempre stare in campo: ma il suo allenatore, il croato Ivan Jurić, decide di preferirgli Adrien Tameze per nutrire di più il centrocampo. Mai stato un rapporto facile tra i due, al di là delle bandiere: il mister ha spesso accusato di indolenza l’atleta, pur dotatissimo. Al punto di umiliarlo escludendolo da un derby dopo un quarto d’ora scarso, con parole gravissime. Eppure, se non avesse dovuto attendere un’ora in panchina, ieri Radonjić non avrebbe probabilmente maturato quella rabbia che lo ha portato a scagliare in porta il pallone del successo, e a non-esultare in maniera polemica verso il pubblico e (forse) verso il tecnico.

 

Un’estate trascorsa senza che si parlasse di lui: riscattato per obbligo, nei giorni dell’indisponenza il Toro valutava come liberarsene. Altri erano gli affari che tenevano banco: la difficile quanto riuscita resistenza all’addio di Alessandro Buongiorno e Samuele Ricci, la trattativa per reintegrare Nikola Vlašić, il rinnovamento della fascia grazie a Raoul Bellanova e Brandon Soppy, la scommessa Saba Sazonov. Radonjić rientrava in circolazione solo all’atto di scrivere la probabile formazione tipo, nella consapevolezza generale che il duro Ivan avrebbe escogitato qualsiasi cosa pur di avere almeno un’alternativa. Ciononostante, il calciatore si prende il numero 10: che a Torino granata significa Renato Zaccarelli, Beppe Dossena, Martín Vázquez. E a nessuno, in dato contesto, venga in mente di citare Valentino Mazzola.

 

Punto nell’orgoglio, e orfano dell’alter ego Vlašić che egli stesso ha stavolta avvicendato, il 27enne di Niš è quello che non ti aspetti quasi più, da tanto ha spazientito i tifosi. Che però continuano a perdonargli quasi tutto: ma è lo scopo dei talenti, decidere quando ormai pare impossibile. Al goal da tre punti, Nemanja Radonjić arriva superando una serie di crocicchi ipotetici quanto concreti: l’arbitro Daniele Chiffi poteva recuperare meno minuti? A Genova qualcuno se lo sta chiedendo, se ci fossero tutti e sei. Il Toro era mai entrato nell’ottica di disfarsi di uno stipendio ingombrante per un rendimento inferiore alle attese, salvo creare un caso? A proposito: a più di mille chilometri di distanza, la Salernitana rimugina se non fosse meglio perdonare Boulaye Dia anziché naufragare a Lecce. Infine, l’opposizione di Vanja Milinković Savić, di ginocchio in modalità hockey, alla conclusione del genoano Berkan Kutlu: minuto 93, giusto l’azione prima del takeover.

 

I granata piemontesi per tutta la durata sbattono le corna contro il muro ospite, e vedono la clessidra assottigliarsi. Ilić ha molto spazio nei pressi dell’out destro: con una precisa sventagliata mancina, sospesa nel cielo da destra a sinistra, all’opposto diametrale pesca il connazionale Radonjić, che affronta Silvan Hefti. Già saltato poco prima, due volte su due. Controllo di destro, stop di sinistro, poi di nuovo sul destro. Non c’è molto tempo. Occhi sulla palla, e sui piedi dell’avversario. Di suola il pallone avanza, i due contendenti misurano la distanza col braccio, Radonjić cerca la linea di fondo e travolge Hefti di vento: senza commettere fallo, è solo più veloce. Se lo svizzero lo tocca, è rigore. Anziché seguire la linea, il 10 va dritto per dritto come si faceva da ragazzini, con l’esterno del piede destro: alza gli occhi solo per un attimo, non prende in considerazione altra idea che il tiro di potenza sotto la traversa. Nonostante il portiere Josep Martínez copra il primo palo e riduca lo specchio, nonostante in mezzo ci siano quattro o cinque maglie granata.

 

Tutto in sette secondi: la cannonata di piatto destro crocifigge l’estremo genoano all’altro incrocio, Radonjić non aspetta manco di vederla atterrare. È già che festeggia sotto la Maratona? No, porta il dito alla bocca, mima il quaquaraquà con l’altra mano, e per la propria rivincita personale perde un’occasione di festa collettiva, in occasione della prima vittoria stagionale in campionato.
L’episodio dà, l’episodio toglie: lo sa bene il Genoa, che la scorsa settimana aveva sbancato il terreno della Lazio con una sola vera palla goal. E qui pure prova a riassestare l’incontro proprio allo scadere dei sei minuti di recupero, con un tentativo di Albert Gudmundsson da fuori. Non va.

 

Sempre più spesso, nell’italiano postmoderno, sentiamo definire “fattore” colui che determina il risultato di una competizione sportiva, specie a squadre: lungi dal moltiplicare pani e pesci, astratto dall’elevare a potenza una squadra costruita per vivacchiare ai margini della zona Europa, a un anno di distanza dai suoi primi, fatui lampi il fattore Radonjić -scarpe grosse e cervello fino- dissoda scrigni sepolti, ara la fascia, semina fantasia e coltiva felicità. Ma lui pensa già al prossimo incrocio con la sorte, facendosi trovare al posto giusto nel momento opportuno.


Crocicchi è la rubrica di Enrico Veronese che ci terrà compagnia in questi mesi di Serie A. Sarà il racconto, giornata dopo giornata, degli incastri imperfetti che il calcio sa mettere in un campo di gioco, di tutto ciò che sarebbe potuto essere, ma non è stato. Che poi, in fondo, è il bello del calcio.   

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