Il nuovo sguardo della Nazionale di Spalletti
L’Italia ha battuto 2-1 l’Ucraina e ora guarda con meno ansia il futuro delle qualificazioni all'Europeo 2024. Qualcosa è cambiato in campo, soprattutto negli occhi dei calciatori e nel commissario tecnico
Probabilmente Luciano Spalletti se le aspettava diverse, forse migliori, queste prime due partite passate a bordo campo a guidare la Nazionale italiana di calcio. Si era immaginato migliore senz'altro il debutto: 1-1 contro la Macedonia del nord, quella stessa squadra che il 24 marzo 2022 aveva reso reale l'incubo peggiore dell'Italia calcistica, l'esclusione dal secondo Mondiale di fila. Una delusione ancor peggiore perché arrivata dopo la sbornia della vittoria dell’Europeo a Wembley contro l’Inghilterra.
Avrebbe voluto vincere subito, segnare una cesura netta con quello che era stato prima di lui, quella Nazionale che arrancava, stanca e consumata, in campo, che faceva una fatica enorme a trovare quell'armonia necessaria a ogni squadra per esprimersi quantomeno in modo decente. C'ha impiegato oltre novanta minuti. Se alla prima rappresentazione poco o nulla sembrava cambiato dall'èra Roberto Mancini, alla seconda l'Italia ha dimostrato di essere mutata. Non tanto nel gioco, in ogni caso più piacevole, più fluido; e c'entra nemmeno il risultato: il 2-1 contro l'Ucraina è stato risultato giusto, forse non del tutto convincente, ma quantomeno concede agli Azzurri la possibilità di guardare al futuro, a ottobre (il 14 affronterà Malta, il 17 l'Inghilterra), con meno ansia, nonostante la classifica dica che i punti sono gli stessi, sette, di Ucraina e Macedonia del Nord, seppur con una partita giocata in meno. Ciò che è cambiato è lo sguardo, quello dei giocatori, soprattutto quello di chi questi calciatori li guida dalla panchina. Pure gli occhi di Nicolò Barella, solitamente infiammati da una volontà di dominio intransigente e polemica, si sono addolciti, sono diventati indulgenti, quasi fraterni nei confronti di chi gli sta accanto con la stessa maglia addosso.
Non c'è più lo sguardo duro e autoritario, solo apparentemente amichevole, di Roberto Mancini a osservare i giocatori da fuori il rettangolo di gioco, c'è quello tenero e comprensivo di Luciano Spalletti, che a volte si accende di furente energia, per poi subito placarsi. L'occhio del padre-padrone è diventato quello del padre e basta, quasi del parrino, il parroco capace di ascoltare, confessare, soprattutto assolvere.
Luciano Spalletti sa di non avere in squadra campioni capaci di inventarsi in solitaria finali alternativi. Sa soprattutto di non avere in gruppo quei quattro cinque uomini dal carisma strabordante in grado di stemperare la tensione e trasformarla in un'irresistibile volontà di vittoria e rivalsa. Lo ha capito subito, forse se lo era immaginato o già lo sapeva, è uomo di calcio da sempre, da panchina da tanto, soprattutto di mondo. Uno che magari utilizza un po' troppe frasi a effetto, che mescola filosofia spiccia e proverbi, che infiocchetta per bene la cultura popolare che fu per farla sembrare cultura ben più alta, che usa un abc di psicologia di gruppo senza fare lo psicologo per davvero. Non è il suo compito. Lui deve allenare, ora anche selezionare, in ogni caso dirigere, accompagnare i propri giocatori alla maniera dei padri. Ha fatto suo ciò che cantava Franco Battiato: “L'analista sa che la famiglia è in crisi, da più generazioni, per mancanza di padri”, tralasciando il seguito: “Ed io che sono un solitario non riesco; per avere disciplina ci vuole troppa volontà”. La volontà per avere e imporre disciplina ce l'ha, Luciano Spalletti, la mette in pratica a suo modo, con il suo sguardo.
Gli occhi del commissario tecnico seguono compassionevoli i suoi giocatori, quasi li spingono, a volte li ammoniscono, ma mai con cattiveria, solo con placida autorità. Sono occhi capaci di un sentimento di vicinanza, di guida amorevole, senza bisogno però della carezza, del gesto o della frase di smaccato e sfacciato affetto. Come le sue parole, capaci di bacchettare con sensibilità quanto detto da Davide Frattesi a proposito dei fischi di San Siro contro Gigio Donnarumma: “Mai visto una roba del genere in Nazionale, una cosa indegna”. “Noi abbiamo il dovere di comportarci come professionisti, non come bambini viziati. Si sta zitti”, ha commentato il ct. Un padre, o un parrino, ha anche il compito di educare al buon senso. E il buon senso vuole che si faccia fronte comune, che sia l'allenatore a gestire certe cose. Ogni buona avventura calcistica parte da questo.