ciclismo
La Vuelta di Sepp Kuss è un bisticcio di sguardi e parole
Vingegaard e Roglic hanno sempre fatto fatica a esternare emozioni. In questa Vuelta hanno iniziato a far fatica a levare gli occhi dall'asfalto una volta terminato di pedalare. Quasi a voler dire che sì, è sempre meraviglioso quando un gregario vince, a patto che il gregario non sia il tuo
Tutto è mutato in un pomeriggio di fine agosto, salendo verso l'Osservatorio astrofísico di Javalambre. Il Pico del Buitre è stato il luogo del grande inconveniente, quello che ha cambiato il corso degli eventi della Vuelta 2023, concesso a chi era stato invitato al ballo in qualità di servizio d'ordine, l'opportunità di danzare con la reginetta. Tutto molto cinematografico, molto americano, una commediola sentimentale come tante. Un intoppo nella trama, giusto il tempo di illudere che non solo i quarterback possono ambire alla bellona di turno. Tipo The Big bang theory, ma con molta meno allegria. Sepp Kuss quel giorno vinse la tappa, Lenny Martinez vestì la maglia rossa, i favoriti della vigilia lontani poco più di due minuti e mezza in classifica. Non sono granché due minuti e mezzo, non era una fuga bidone che spiazza l'intera trama. Tutto sarebbe rientrato nel normale ordine delle cose, con Sepp Kuss a ritornare nei panni di se stesso, quelli del gregario, e gli altri due, Primoz Roglic e Jonas Vingegaard in quelli dei capitani, perché soliti andare più forti di tutti gli altri. Ne erano convinti tutti, pure i diretti interessati, soprattutto i diretti interessati. Perché sono belle le storie dei gregari che vanno più forti dei capitani, fa piacere quando accade, fa piacere pure ai capitani. A patto che durino poco.
La storia di Sepp Kuss primo in classifica alla Vuelta, la corsa a tappe che doveva permettere o a Primoz Roglic o Jonas Vingegaard di vincere due grandi giri in un anno, ha invece continuare ad andare avanti, giorno dopo giorno, tappa dopo tappa, chilometro dopo chilometro. È diventata una storia seria.
Da quel pomeriggio di fine agosto tutto è cambiato, c'è solo una cosa che è rimasta fissa, immutabile: l'espressione di Sepp Kuss, il suo sorriso. Ha continuato a sorridere Sepp Kuss, al solito modo di sempre. Ce ne era da essere felici, questo sicuro. Un po' meno per essere sereni. Perché i capitani sono capitani non solo perché pedalano più veloce in bicicletta, ma anche perché hanno più determinazione e cattiveria sui pedali, perché non sanno correre per correre o per aiutare, ma in testa c'hanno solo un'esigenza: passare la linea d'arrivo per primi. Di tutto ciò Jonas Vingegaard e Primoz Roglic ne hanno a bizzeffe. Non si vincono altrimenti due Tour de France o tre volta la Vuelta e un il Giro d'Italia, oltre a svariate altre corse.
Nella strepitosa opera corale della Jumbo-Visma, (a piazzare tre corridori nelle prime tre posizioni della classifica generale c'è riuscita solo la Kas-Kaskol nel 1966 con Francisco Gabica, Eusebio Vélez e Carlos Echeverría), si sono inseguite dichiarazioni di lode e giubilo per Sepp Kuss da parte degli altri due. “Come ho detto più volte anche a Sepp, è lui che volevo veder vincere. Certo è difficile non poter correre per la vittoria. Ho la mia opinione al riguardo, ma cercherò di fare il meglio che posso per la squadra”, ha detto Primoz Roglic; “È bello poterlo ricambiare dopo che ha così tanto lavorato in passato per me e per Primoz. Mi piacerebbe poterlo ricambiare ed è quello che abbiamo fatto oggi in strada”, ha ammesso ieri Jonas Vingegaard.
Le parole sono sempre più precise e opportune degli sguardi, hanno la capacità di rendere tutto più carino, di imbellettarlo per bene. Quello che è emerso nelle ultime tappe di questa Vuelta dominata di squadra è che chi doveva vincere e potrebbe non vincere ha cambiato il modo di guardarsi attorno dei protagonisti. Vingegaard e Roglic hanno sempre fatto fatica a esternare emozioni, sono persone riservate, di poche parole. In questa Vuelta hanno iniziato a far fatica a levare gli occhi dall'asfalto una volta terminato di pedalare. Quasi a voler dire che sì, è sempre meraviglioso quando un gregario vince, a patto che il gregario non sia il tuo.
Mancano ancora 207 chilometri e 4.361 metri di dislivello da pedalare prima di arrivare alla passerella di Madrid. Mancano ancora tante salite, nessuna troppo dura, ma nessuna troppo poco, per capire se gli sguardi e parole andranno d'accordo, se la corsa seguirà l'amor di squadra e di quieto vivere oppure fuggirà all'inseguimento dell'amor proprio, di quella naturale e necessaria volontà di imporre il proprio passo, di sbarazzarsi di tutti gli altri e pedalare nella solitudine. C'è nulla di male sia nel primo che nel secondo potenziale scenario. Rimane solo la sensazione che in fondo a sorridere sarà solo Sepp Kuss, perché lui lo fa sempre, è contento di quello che fa, a tal punto contento di essere capace pure di perdonare.