Il Foglio sportivo
L'Italia del rugby non ha mai giocato così bene
È la Nazionale più forte degli ultimi 20 anni, anche se dietro c’è un movimento che sa solo litigare
L’Italia del rugby? La più forte degli ultimi 20 anni. Non tanto per l’attuale posizione nella graduatoria mondiale (undicesima, ma è stata ottava nel 2007), non tanto per le recenti vittorie conquistate (tre consecutive contro Romania, Giappone e Namibia, però tutte inferiori in classifica), non tanto per il numero di praticanti e spettatori (in diminuzione, sul campo anche per colpa del Covid, sugli spalti un po’ per la lunga serie di sconfitte e un po’ per l’esaurirsi dell’effetto novità, passaparola, moda e un po’ anche per la crisi economica).
La più forte degli ultimi 20 anni, finalmente e semplicemente, per i giocatori e per il gioco. Un gruppo di atleti giovani e convinti, un tipo di gioco non originale ma collaudato, memorizzato, imparato, mostrato. Anche adesso, in Francia, nella Coppa del mondo.
Venti nazioni (una volta si sarebbe detto 19 nazioni e una tribù, quella degli All Blacks) e 20 Nazionali divise in quattro gironi. Le prime due di ciascun girone passeranno ai quarti di finale, e da lì dentro o fuori. L’Italia, sconfitta la Namibia (ma troppi palloni persi, 22), dovrà affrontare – in un crescendo di forze avversarie – Uruguay (20 settembre a Nizza), Nuova Zelanda (29 settembre a Lione) e Francia (6 ottobre a Lione). Previsioni: vittoria contro gli uruguaiani, sconfitte contro neozelandesi e francesi. Anche se Marzio Innocenti, presidente della Federazione italiana, ha sbandierato il suo ottimismo promettendo che gli azzurri, una delle due, la vinceranno. L’ipotesi è affascinante, addirittura seducente, ma impossibile, irreale. Perfino giocando in 14 contro 15, All Blacks e Bleus ce le suonerebbero. Altra storia, altra categoria. Sconti e amnesie, nel rugby, soprattutto qui, non sono previsti.
Sopravvissuti, anche irrobustiti, ad anni di sconfitte in mille sfumature, da quelle umilianti a quelle onorevoli, da quelle che provocano rimorsi a quelle che scatenano rabbia, per noi rugbisti italiani è impossibile costruire illusioni o miraggi. L’importante è giocarsela. Con orgoglio e coraggio, si sa, ci mancherebbe altro, ma anche con lucidità e concentrazione, con organizzazione e fantasia. Come si diceva una volta: con onore. Sarebbe già tanto.
Ma se per Italia del rugby si intende non la Nazionale maschile, che è la punta dell’iceberg (non è vero: nella graduatoria mondiale la Nazionale italiana donne è ottava), ma l’intero movimento, lo stato delle cose è meno allegro. Possiamo considerarci primatisti del mondo come livello di litigiosità. Su qualsiasi iniziativa, in qualsiasi materia, per qualsiasi argomento. Dalla formula del campionato (il prossimo vedrà nove società impegnate nella massima serie) alla filosofia delle franchigie (la migliore espressione dei giocatori italiani o il solito compromesso fra giocatori italiani e stranieri), dal ruolo delle accademie (centri di specializzazione) alle crisi dei club (economica, strutturale, umana).
Lo si ammette, con sofferenza, senza entrare nel merito. Il dilemma è antico: puntare su una Nazionale vincente per godere di un effetto tipo doccia, a ricadere su tutto il movimento, fino alla base?, oppure puntare su un lavoro proprio alla base, nella promozione, nel reclutamento, nell’assistenza, a cominciare da campi e allenatori? Anche la risposta è antica, sempre quella: una botta qua e una botta là. E fra un anno ci saranno le elezioni federali.
Intanto, però, godiamoci l’Italia del rugby, quella di Michele Lamaro, il capitano, quella di Ange Capuozzo, il piccolo, quella dei fratelli Cannone, i grossi, quella di Simone Ferrari, il solido, quella di Monty Ioane, il veloce, quella di Paolo Garbisi, il regista, quella di Manuel Zuliani, il generoso. E quella di Kieran Crowley, il tecnico neozelandese, che a questa Nazionale ha dato solidità e credibilità, e che prima della Coppa del mondo ha saputo che dopo la Coppa del mondo avrebbe dovuto trovarsi un’altra squadra. Anche qui: ci saranno state valide ragioni, ma certi modi, non parliamo di stile o eleganza, si fa fatica a capirli.