ciclismo
Alla Vuelta Sepp Kuss ha staccato il romanticismo nostalgico
L'americano ha vinto la corsa a tappe spagnola davanti a due suoi compagni di squadra, Vingegaard e Roglic, che dovevano essere i suoi capitani. Kuss ha però soprattutto battuto i pregiudizi che abbiamo nei confronti del ciclismo moderno
Domenica sera a Madrid, uno dei migliori gregari in circolazione, uno dei pochi che in questi anni è riuscito a disintegrare le resistenze di molti capitani, mai i propri, è salito sul gradino più alto del podio della Vuelta. Al suo fianco c'erano entrambi i suoi capitani: Jonas Vingegaard e Primoz Roglic. O quantomeno quelli che sulla carta sarebbero dovuti essere i suoi capitani. Quasi a suggerirci, ma piano e a mezze parole, che non sempre ciò che si crede ineludibile lo è davvero. Sepp Kuss doveva essere l'ultimo uomo di Jonas Vingegaard e Primoz Roglic, poi, strada facendo, è finito davanti a loro, in un pomeriggio di fine agosto e inizio Vuelta. E non s'è più mosso di lì. Un po' perché andava forte anche lui, anche se forse meno degli altri due, ma tant'è. Un po' perché se sei il miglior gregario nella migliore squadra al mondo nelle corse a tappe di tre settimane (e forse non solo), e la Jumbo-Visma almeno negli ultimi tre anni lo è, vuol dire che hai le capacità per finire davanti a moltissimi; un po' perché proprio perché sei il miglior gregario nella migliore squadra al mondo nelle corse a tappe di tre settimane, devi soprattutto preoccuparti dei tuoi due capitani, e non tanto di loro come persone, ma della loro naturale propensione alla vittoria, all'imporre il proprio volere, perché se uno è un vincente lo è sopratutto per capacità di fare di tutto per imporsi.
A Barcellona, all'inizio di questa Vuelta, la possibilità che un corridore della Jumbo-Visma potesse arrivare a Madrid con la maglia rossa addosso era abbastanza plausibile, quasi scontata.
C'era chi era portato a pensare che fosse Jonas Vingegaard per completare una doppietta Tour-Vuelta che gli avrebbe dato quello spessore da campione assoluto che due Tour de France vinti da campione non erano riusciti a dargli. Soltanto però per ragioni di vicinanza a Tadej Pogacar: lo sloveno è simpatico, sorridente e mattacchione, il danese no e tra uno che ci fa simpatia e uno che parla a stento e spesso per monosillabi si preferisce sempre il primo.
C'era chi era portato a pensare che fosse Primoz Roglic per completare una doppietta Giro-Vuelta, che l'avrebbe parzialmente ripagato per quello che ha perso in questi anni dopo aver "contratto" la sindrome di Paperino. Nemmeno Primoz Roglic è simpatico ai più, nemmeno lui è uno che fa simpatia a primo impatto, ma quantomeno un po' più di Jonas Vingegaard.
Su Sepp Kuss c'era invece unanimità assoluta di vedute: un gregario così lo vorrebbero tutti, perché un gregario così è capace di spaccare la corsa. Seguiva classico corollario: se un giorno potesse fare il capitano, se un giorno gli dessero la possibilità di correre solo per sé e non per gli altri. Quel giorno Sepp Kuss se l'è conquistato un po' per caso, un po' per mancanza di comprensione di quello che stava davvero accadendo da parte della Soudal-Quick Step di Remco Evenepoel, nella tappa che portava all'Osservatorio astrofisico di Javalambre. E fa sorridere che il corridore che Sepp Kuss dovrebbe stringere la mano per aver reso possibile l'improbabile è proprio il “peggiore” degli avversari, l'unico che, sempre sulla carta, aveva la possibilità di scompaginare i piani della Jumbo-Visma.
Sepp Kuss dovrebbe stringergli la mano, abbracciarlo, non certo ringraziarlo. Non deve ringraziare nessuno Sepp Kuss, quello che si è preso, la maglia rossa, l'ha ottenuto grazie a gambe e convinzione, per la prima volta nella sua carriera, concentrata su se stesso e non diretta verso gli altri.
Sepp Kuss in questi anni si è sempre donato totalmente alla causa altrui. Era convinto che gli altri, e non se stesso, fossero i migliori. Una sincera convinzione, resa più semplice dalla forza dei compagni. Con affianco gente come Jonas Vingegaard e Primoz Roglic è più facile avere assoluta fiducia di lavorare per la persona giusta, che ogni sforzo fosse ripagato. In questi anni ha pedalato con la sola idea in testa di facilitare nel miglior modo possibile le ambizioni di chi gli stava accanto. C'è sempre riuscito. Lui si è ritagliato qualche piccolo spazio: una vittoria di tappa alla Vuelta nel 2019 (vinta da Primoz Roglic), una al Tour de France 2021 (vinto da Jonas Vingegaard), un posto tra i dieci nella classifica generale (sesto nel 2021 alla Vuelta) e tre tra i quindici (12esimo e 15esimo al Tour – 2023 e 2020; 14esimo al Giro).
Soprattutto è riuscito a essere un collante del gruppo, uno che aveva un sorriso sempre pronto, una buona parola, la capacità di sdrammatizzare quando serviva farlo. Prezioso, indispensabile. A tal punto che sia Roglic che Vingegaard lo volevano con loro e a lui toccava il doppio lavoro, due grandi giri all'anno a menare sui pedali su ogni salita nella quale serviva menare sui pedali.
Quest'anno la Jumbo-Visma aveva in mente di vincere tutti e tre i grandi giri e così il solito doppio lavoro è diventato triplo: Giro-Tour-Vuelta, uno di fila all'altro. Che fanno settantasette giorni di corsa in totale. Solo quattordici di questi a pensare che forse era arrivato il suo momento. Ed è quasi paradossale per uno che in salita ha trovato la sua dimensione migliore, che la svolta inaspettata della carriera sia arrivata in una cronometro con pochissimi metri di dislivello. Perché è stato a Valladolid, contro il tempo, che Sepp Kuss, non crollando, si è garantito la possibilità di giocarsi per davvero le sue carte.
Se le è giocate benissimo. Soprattutto quando si è ritrovato a rincorrere i suoi compagni di squadra intenti a dimostrare che un gregario in maglia rossa è una bella storia, ma che poi l'ultima parola ce l'ha sempre la strada. E la strada questa volta ha fatto il nome di Sepp Kuss.
La strada ha anche detto che il ciclismo è oggi più che mai uno sport di squadra e che più questa è forte più ci sono possibilità, se la corsa le rende possibili, di vincere. Ed è una buona cosa, perché finalmente ha reso evidente quello che in tanti per anni hanno evitato di accettare, legati a un romanticismo nostalgico che mal si adattava a quello che i nostri occhi vedevano in corsa. Non c'è bisogno di romanticismo nostalgico, non c'è bisogno di dire ah un tempo era meglio perché quelli forti non facevano i gregari. Il ciclismo è ancora lo sport della bicicletta e ogni volta che si pedala si sa che non tutto è detto, nulla definito, ma che contano gambe e determinazione, conta soprattutto il buon umore, quello che, in fondo, ti spinge di nuovo su di una sella, a pedalare chilometri e chilometri che scesi di sella sentirai come macigni sulle gambe. Sepp Kuss a forza di sorrisi, sofferenza e accelerazioni in salita si è ritrovato nel posto giusto al momento giusto. Ha continuato a sorridere e sorridendo è riuscito a non far detonare una squadra che a due capitani era abituata, ma a tre no. Se li è ritrovati tutti sul podio di Madrid a spruzzarsi spumante in un sorriso collettivo.
E sì, ha vinto Sepp Kuss, ma non solo in corsa.
Il Foglio sportivo