Olive #5
Il verbo di Romelu Lukaku
L'esperienza dell'attaccante belga alla Roma è iniziata nel migliore dei modi. I sette giorni nei quali il numero 90 ha conquistato l'Olimpico
Sette giorni sono una settimana, centosessantotto ore, diecimilaottanta minuti, che poi in realtà sono solo duecentosettanta quando la settimana è farcita di coppe europee. Tutti numeri poco utili, in ogni caso, perché basterebbe il numero tre per sintetizzare quella di Romelu Lukaku. Tre partite, tre gol, tre volte capace di dare a José Mourinho la sensazione che il futuro possa essere meno complicato del presente.
Non è tranquillo Mou, in panchina si agita, la sua faccia vira al grigio, i suoi modi sono nervosi. È mai un buon segnale quando fa così l’allenatore portoghese. La Roma fatica, inciampa, si rialza, torna a zoppicare, ha bisogno di spalle grosse capaci di fornire un appiglio, di trascinare a riva una imbarcazione che a volte si riempie d’acqua. Romelu Lukaku doveva fare questo, essere quello grande e grosso capace prendere possesso dell’aria di rigore e fare in modo di far girare la squadra ordinatamente disordinata attorno a lui. Tiago Pinto e José Mourinho sapevano che era un azzardo, che Lukaku era in fase calante, che gli sarebbero serviti mesi per trovare una forma accettabile. C’hanno comunque provato. Sta andando bene.
Tre gol nelle ultime tre partite possono voler dire poco o niente, ma non in questo caso. Romelu Lukaku non è attaccante che segna anche quando le cose non vanno bene, non è una punta a cui basta trovarsi in area di rigore per fare gol, magari con una deviazione, un colpo fortuito. Non ha e non ha mai avuto la lucidità del centravanti (che la mette dentro) anche quando il fisico è in affanno e il fiatone fa tremare la vista. Tre gol nelle ultime tre partite sono una nuova illusione data a una squadra e a una tifoseria che proprio illudendosi riesce a farsi forza, a carburare e superare le difficoltà, a trovare altri motivi per illudersi ancora e ancora e ancora.
Romelu Lukaku ha girovagato a lungo in questi anni, si è fatto amare, desiderare, spesso idolatrare. Poi ha fatto sempre qualcosa per farsi detestare. Ci è sempre riuscito. Ovunque è andato ha segnato molto, a eccezione del Chelsea, ha promesso di più, si è stancato subito, quasi fosse sempre alla ricerca di un altrove da conquistare, di un posto dove essere trattato ancor più da re, quasi da messia. Lo hanno chiamato mercenario, lo hanno definito ingrato, avido di soldi. Forse è così, ma il professionismo è anche questo: accettare il mercato, farsi pagare il più possibile.
Eppure Romelu Lukaku non è solo un avido cacciatore di grandi contratti, è soprattutto un uomo orgoglioso con una grandissima considerazione di sé, un giocatore peluche che reclama coccole, carezze e lodi, molte lodi, tantissime lodi. Più ne riceve e meglio sta, più ne riceve e più ne vuole, al punto da farsi prendere da un turbinio di autoesaltazione che lo porta a volere nuovi stadi e nuovi tifosi da sedurre per sentirsi più amato, temuto, forse più forte.
José Mourinho ha spronato il belga, gli ha affidato l’attacco della squadra, ha rimesso in panchina Andrea Belotti che bene aveva fatto nelle prime giornate, quelle antecedenti allo sbarco del centravanti nella Capitale. Gli ha fatto capire nei fatti il motivo per il quale ha detto di sì all’idea del general manager giallorosso Tiago Pinto, perché non sempre bastano le parole, anche quando sono carezze. Sa che con un centravanti da 25 gol a stagione la sua squadra può raggiungere quei traguardi che aveva in testa ma che sembravano essere svaniti nella lunga ricerca, a tratti infruttuosa, del numero nove capace di tradurre gli attacchi in gol.
E in tutto questo Romelu Lukaku è tornato a vivere in una città che lo adora, che lo aspetta e gli chiede il miracolo. Com’era accaduto nella Liverpool blu Everton o a Milano, o in parte, in maniera abbastanza paradossale, nella Manchester rossa United. Perché in quei Red Devils guidati in panchina da José Mourinho tra uno Zlatan Ibrahimovic e un Alexis Sanchez, tra un Paul Pogba e un Juan Mata, un Luke Shaw e un Henrikh Mkhitaryan, il belga diventò la speranza, fin troppo ben pagata, di un ritorno alla vittoria che mancava da troppi anni. Andò bene per lui, un po’ meno per il Manchester United. L’altra Manchester, quella del City, festeggiò il campionato, la grande speranza Mou si sgretolò pian piano.
Lukaku ha trovato altre piazze e altri fedeli, è stato respinto da Londra, ma Londra ha troppi idoli e lui vorrebbe essere il solo, al massimo avere un alter ego, di quelli timidi, da poter mettere in ombra. Paulo Dybala sembra l’uomo perfetto per questo, Roma sembra perfetta per fare da sfondo al proliferare del suo verbo.
Anche quest'anno c'è Olive, la rubrica di Giovanni Battistuzzi sui (non per forza) protagonisti della Serie A. Piccoli ritratti, non denocciolati, da leggere all'aperitivo. La prima giornata è stato il momento di Jens Cajuste (Napoli). Il secondo appuntamento è stato dedicato a Luis Alberto (Lazio); nella terza giornata vi ha tenuto compagnia Ruggiero Montenegro con Federico Chiesa (Juventus); nella quarta è stato il turno di Andrea Colpani (Monza)