il foglio sportivo
Quanto riesce a farsi voler bene Ciccio Graziani
L'ex attaccante: “Quando rivedrò Grobbelaar in Paradiso il rigore glielo segno e poi comincio a ballare”
Questa è una storia di uno di noi, nato per caso a Subiaco, cuore pulsante della Valle dell’Aniene. Una storia sospesa fra normalità e leggenda. Una storia fuori dal comune in un mondo, quello del calcio, dove gli avversari sono nel frattempo diventati nemici. A Francesco Graziani, detto Ciccio, vogliono tutti bene. Anche quelli a cui calcisticamente ha fatto male. Forse perché lui la vita l’ha presa sempre di petto, rimanendo candidamente se stesso.
Partiamo dall’inizio caro Graziani…
“Possiamo cominciare dal viaggio in treno che da Subiaco portò ad Arezzo un ragazzo di sedici anni e mezzo, carico di sogni, ma ignaro quasi di tutto il resto. Avevo giocato nella squadra romana del Bettini Quadraro, dove mi avevano notato alcuni emissari dell’Arezzo. Mi avevano proposto una sorta di provino, che in realtà era una partita con i pari età della squadra toscana. Mi dissero a caldo che volevano rimanessi con loro. Fosse stato per me, avrei risposto subito di sì, ma la parola finale spettava ai miei genitori. Vennero a parlare con mamma e papà, che decisero all’unisono che fosse il caso di provare e a settembre mi trasferii in pianta stabile ad Arezzo. E la grande avventura ebbe inizio”.
Come fu?
“L’impatto all’inizio fu scioccante. Mi ritrovavo da solo in una città, che era dieci volte più grande di Subiaco. Mi abituai in fretta. C’era un sogno da provare ad esaudire. Un divertimento senza troppe pretese poteva diventare una professione”.
Dopo Arezzo arriva il calcio vero. Torino è la città della grande svolta. Centoventidue gol in totale, uno scudetto, il titolo di capocannoniere, Gigi Radice, la coppia più bella del mondo con Paolino Pulici…
“Ho avuto la fortuna di giocare in una squadra affascinante, che aveva alle spalle una storia tanto gloriosa, da fare venire i brividi. Mi sono ambientato subito. Molti dei ragazzi che mi hanno accolto, Aldo Agroppi in testa, mi dicevano che arrivare è facile, ma mantenersi a certi livelli molto più difficile. Ce l’ho messa tutta per non deludere prima loro e, poi, me stesso. A Torino sono nati Gabriele e Valentina e, da solo che ero, mi sono ritrovato ad avere una famiglia tutta mia”.
Sua moglie Susanna l’aveva conosciuta ad Arezzo…
“L’ho incontrato quando avevo diciotto anni. Dopo due anni di fidanzamento, ci siamo sposati. L’anno prossimo festeggeremo le nozze d’oro. Un grande amore. Un’insostituibile compagna di vita. Tante cose messe insieme. Lei è parte integrante della mia vita. Io della sua. Ci siamo amati e supportati. Abbiamo condiviso i momenti belli e quelli difficili. Abbiamo messo su la famiglia che sognavamo. Fra noi c’è tutto quello che ci può essere fra un marito e una moglie”.
Che cosa ricorda, oltre all’accoglienza, di quel Torino?
“Gigi Radice è forse la persona, a cui in assoluto devo di più. Se sono cresciuto tecnicamente e caratterialmente, il merito maggiore è suo. Non era solo un bravissimo allenatore. Era una persona di grande personalità, che era impossibile non ascoltare. Grazie ai suoi consigli, sono migliorato, giorno dopo giorno. Pulici è stato un compagno di viaggio meraviglioso. Nessuna gelosia. Neppure uno screzio. Del resto, eravamo tecnicamente complementari. Io avevo bisogno di lui e lui di me. Eravamo fatti per giocare l’uno al fianco dell’altro. In otto anni abbiamo realizzato in tandem la bellezza di duecento gol: centodue lui e novantotto io”.
Che cosa ricorda del giorno dello scudetto?
“Una festa infinita. Avevamo scritto una grande pagina di storia. L’ultimo scudetto granata l’aveva vinto il grande Torino. Fu una giornata memorabile, un’emozione senza pari e una gioia immensa. Era il primo scudetto, che peraltro sarebbe rimasto l’unico, vinto dopo quella immane tragedia. I tifosi piangevano di gioia. Noi no. Io sorridevo a tutti, come in automatico. Eravamo euforici. Solo Castellini cedette all’emozione e scoppiò in lacrime. Ricordo di avergli detto: “Luciano non c’è niente da piangere. Devi essere contento. Abbiamo vinto lo scudetto”.
Poi arrivò la Fiorentina…
“A Firenze ho vissuto due anni bellissimi, con uno scudetto sfumato solo all’ultima giornata. L’allenatore di quella squadra era Giancarlo De Sisti. Con lui che, oltre che un bravo tecnico, era una persona speciale, c’era un rapporto bellissimo”.
Dalla Fiorentina alla Roma di Nils Liedholm e alla cavalcata trionfale in Coppa dei Campioni, sino alla finale nello stadio Olimpico più gremito di sempre, persa ai rigori contro il Liverpool…
“Anche a Roma sono stati anni meravigliosi. Il grande rammarico è che con quella squadra dovevamo vincere molto di più. Soprattutto dovevamo conquistare la Coppa dei Campioni davanti al nostro pubblico. Quella partita segna il momento più triste della mia carriera. È il più grande rimpianto della mia vita sportiva”.
Quanto ha inciso il balletto di Bruce Grobbelaar sul suo errore dal dischetto?
“Assolutamente niente. A darmi fastidio furono i flash scattati dai fotografi, posizionati dietro la porta. A bocce ferme, ne parlai con il Presidente Dino Viola, che si rivolse all’Uefa. Sono passati tanti anni e nessuno ci fa più caso, ma se oggi i fotografi non tormentano più con i loro flash i rigoristi al momento del tiro, lo si deve in parte a me”.
Oltre ai flash dei fotografi, ha pesato anche la responsabilità che in quel momento si assumeva per i tifosi e per i compagni di squadra?
“Certo. Ho penalizzato non solo me stesso, ma anche i miei compagni e l’intera tifoseria della Roma. Dico sempre, però, che i rigori non li sbaglia mai solo chi non li tira”.
Si riferisce a Paulo Roberto Falcao?
“Purtroppo in quel momento non se l’è sentita. A quanto diceva, era stanco. Ce ne siamo fatti una ragione, anche se io, a distanza di tanti anni, seguito a pensare che un campione di quel calibro dovrebbe sempre assumersi una responsabilità, come quella di tirare un rigore in una finale di Coppa dei Campioni, per giunta giocata in casa davanti al proprio pubblico. Questo è il mio pensiero. Poi, ciascuno ha il diritto di vedere le cose alla propria maniera”.
Due anni prima di quel maledetto rigore, si era laureato campione del mondo con l’Italia a Madrid, con il rammarico di non aver potuto giocare la finale per un infortunio. Che ricordo ha di Enzo Bearzot?
“Bearzot era una persona speciale. Quella vittoria l’ha fatto entrare nella storia della nazione dal punto di vista sportivo. Una vittoria che arrivava dopo quarantaquattro anni dall’ultima volta. Un’emozione talmente grande che è difficile raccontare a chi non l’ha vissuta dall’interno”.
Ha un ricordo particolare di quel giorno?
“Non dimenticherò mai le parole pronunciate da Dino Zoff, che di quella squadra era il capitano, subito prima dell’inizio della finale contro la Germania: “Faremo la storia di noi stessi, della nostra professione e dell’Italia tutta solo se vinciamo. Se sinora abbiamo dato il cento percento, oggi per alzare la Coppa servirà il centocinquanta”. Seguì un abbraccio fortissimo, fuori dall’ordinario, che sento ancora sulla pelle. Credo che la partita l’abbiamo vinta in quei momenti di inaudita intensità, che precedettero il fischio d’inizio”.
Dopo il calcio giocato, ha tentato anche un’incursione politica, candidandosi con Forza Italia. Che ricordo ha di Silvio Berlusconi?
“Una grande persona, geniale, coinvolgente, profondamente umana. Fu lui in persona a convincermi, superando le mie iniziali resistenze. A me la politica non era mai piaciuta, ma lui ha insistito fino a farmi capitolare. Ricordo, una ad una, le sue parole. “Ciccio mi devi fare una cortesia personale. Tu ci puoi portare dodicimila voti, che per noi sarebbero una gran cosa. Non dirmi di no”. Finì che di voti ne portai a casa ventisettemila, mancando di pochissimo l’ingresso in Parlamento. Il rigore l’avevo tirato benissimo, ma le porte della Toscana erano troppo strette”.
Fu Berlusconi a volerla protagonista del reality “Campioni, il sogno”, andato in onda con enorme successo per due stagioni su Italia 1?
“Non credo sia stato lui. Certo è che più di una volta mi ha telefonato per farmi i complimenti. Mi diceva che lo facevamo divertire”.
Lei in quel reality interpretava alla perfezione la parte dell’allenatore del Cervia, che entrava negli spogliatoi sotto l’occhio vigile delle telecamere...
“Ricordo che durante la conferenza di presentazione dissi a Piersilvio Berlusconi che con quel reality stava precorrendo il futuro. Siamo stati gli antesignani di una rivoluzione, che ha abbattuto anche l’ultimo tabù. Credo di aver intuito per primo la portata dell’impatto delle telecamere all’interno degli spogliatoi negli attimi immediatamente precedenti l’inizio della partita. Tutti da casa attendevano il momento, in cui entravo nello stanzone, dove i giocatori si stavano cambiando, prima di scendere in campo”.
Opinionista Mediaset, co-conduttore con Marco Lollobrigida e Domenico Marocchino del programma radiofonico di Radio 2 “Campioni del mondo”. Lei continua a non farsi mancare nulla…
“Nella vita bisogna sempre rinnovarsi. Confrontarmi con un mondo, che in qualche misura non mi appartiene, mi stimola e mi aiuta a sentirmi vivo. Ogni volta che mi propongono esperienze diverse, dico sì senza starci troppo a pensare, anche se non manco mai di domandarmi se sarò all’altezza del nuovo compito assegnatomi, ma le sfide sono sempre state il sale della mia vita”.
Le piace il calcio d’oggi?
“Il calcio mi piace al di là del tempo che passa. Le dinamiche sono sempre le stesse. Il pallone, ora come allora, bisogna sempre buttarlo dentro. Certo, non sono un fan della spettacolarizzazione che domina ogni cosa. Oggi i calciatori sembrano, dal primo all’ultimo, più divi di Hollywood che persone in carne e ossa. In questo senso sono più legato al mio calcio, meno aggressivo, più tecnico e, soprattutto, più umano e vicino al contesto e ai tifosi. Quello di oggi è un calcio più distaccato, ma il fascino non è svanito del tutto. A me per entusiasmarmi non serve il rumore del gol. A me basta una palla che ruzzola. Ancora oggi, quando mi capita di vederne una, le corro dietro. Come alla vita”.
Che cosa pensa dell’esodo di massa dei grandi campioni verso l’Arabia Saudita?
“Per qualcuno potrà essere una manna caduta dal cielo, ma io credo che per un calciatore dovrebbe venire prima l’ambizione sportiva e poi i soldi. Se al posto di Sergej Milinkovic-Savicć ci fossi stato io, in Arabia Saudita non sarei mai andato e, le assicuro, neppure sarei stato tentato”.
C’è un calciatore in cui si rivede?
“Un po’ in Belotti, un po’ in Pellegri, che purtroppo è continuamente frenato dagli infortuni, Il mio modello è Lewandowski. Quando lo vedo giocare, mi viene da pensare a quando giocavo”.
Che cosa vuole fare da grande Ciccio Graziani?
“Io i miei settanta e passa non me li sento addosso. Ogni mattina mi sveglio con la voglia di fare qualcosa di diverso. Io non penso a compleanni intermedi. Il mio prossimo traguardo è di arrivare almeno a ottanta anni perché ho ancora mille cose da fare”.
Per esempio…
“Voglio aiutare i miei nipotini a crescere nel modo giusto. Mi sembra già questo un motivo sufficiente per restare ancora a lungo in questo mondo”.
Le capita mai di rivivere nei suoi incubi notturni il rigore fallito contro il Liverpool?
“Vivo quel rimpianto come una parte di me. Spero, però, di poter rivivere quell’attimo, quando Grobbelaar ed io ci ritroveremo in Paradiso. Io nuovamente di fronte a lui, ma questa volta, ne sono sicuro, la palla non andrà fuori. Questa volta la butto dentro. Questa volta sarò io a esultare e a ballare”.