ciclismo
Secondo Wout van Aert
Quando nel 2018 apparve alla Strade Bianche fu chiaro che avrebbe potuto vincere ogni Classica. Le cose stanno andando in modo leggermente diverso. Negli occhi del belga il perché di un talento enorme, incompleto, umano
Wout van Aert ha gli occhi grandi, leggermente affusolati, che concedono al volto un po’ di fascino, un po’ di mistero, una dolcezza che stride con l’acutezza dei suoi lineamenti. Ha uno sguardo intelligente, comprensivo e quando guarda qualcuno non lo fa mai tanto per guardare. I suoi occhi sono indagatori, capaci di cogliere e soprattutto accogliere. Eppure sono velati da una distanza, pacifica e sorridente, ma evidente, una sorta muro che pone tra lui, ciò che prova, e tutto il resto.
Quelli di Wout van Aert sono anche occhi pieni di passione, per quello che fa e per chi gli sta attorno.
È concetto complesso però la passione: è emozione violenta di vicinanza e sentimenti vividi e fortissimi, che porta con sé un’immancabile sofferenza come contraltare necessario. Va così etimologicamente e umanamente, da sempre. Va così anche per Wout van Aert.
Da qualche tempo però il suo sguardo si è fatto fuggitivo, al modo che aveva lui di andarsene dal gruppo, di decidere quando e come mollarlo, diventare solitudine. C’è sempre una volontà di evasione nei campioni del ciclismo, una tendenza a preferire la dimensione solitaria a quella di gruppo. C’è niente di meglio che restare soli in bicicletta, la si usi come svago o come mezzo di lavoro. C’è niente di meglio che restare soli in bicicletta davanti a tutti, godersi la libidine dell’essere inseguiti e non farsi riprendere. Una goduria che Wout van Aert sta provando meno di un tempo, quasi si fosse impantanato con le ruote in chissà quale palude.
Era il marzo del 2018 quando vedendo quel ragazzotto alto e smilzo emergere dal fango degli sterrati senesi alla Strade Bianche ci apparve chiaro che quel nome e cognome, Wout van Aert, l’avremmo presto trovato – e più volte – all’interno di tutti gli albi d’oro delle grandi classiche. Ne avemmo la conferma poche settimane dopo, questa volta sulle pietre del Giro delle Fiandre e della Parigi-Roubaix. È sempre stato raro coniugare perfettamente potenza ed eleganza, van Aert ci riusciva, ci riesce, meravigliosamente.
Sono passati cinque anni e mezzo da allora, non è andata come era lecito aspettarsi. Wout van Aert ha vinto tanto, in corse di un giorno, in giri di una o tre settimane, a cronometro e in montagna, allo sprint o tra le colline. Ha vestito la maglia gialla e quella verde (quella della classifica a punti) del Tour de France e quest’ultima l’ha portata a Parigi. Eppure il suo nome compare solo nell’albo d’oro della Milano-Sanremo (oltre che in quello della Strade Bianche), edizione 2020, quella del gran rifiuto della Riviera di farla transitare per l’Aurelia. Era epoca di Covid, di una pandemia che sembrava già finita senza esserlo davvero: preferirono i turisti alle bici della Classicissima fuori stagione.
Wout van Aert in questi cinque anni e mezzo ha vinto trentasei volte, è arrivato secondo in trentadue occasioni, terzo in venticinque, centosedici volte tra i primi dieci. E tutto questo in duecentoquarantuno giorni di gara. Ci fossero i punti come nella boxe, Wout van Aert sarebbe campione. Il ciclismo però non è la boxe, i punti non sono previsti, vige la dittatura del ko. E anche il secondo posto è un ko, tecnico, ma comunque un ko.
Wout van Aert sta diventando la più bella storia mai successa del ciclismo degli ultimi anni. Ci sta trascinando, suo malgrado, in un vortice di finali alternativi, in imprevisti scarti di trama in un romanzo appassionante, un giallo nel quale chi credevamo fosse l’assassino in realtà era la vittima e così due, tre, decine di volte. Se Christopher Nolan fosse un appassionato di ciclismo ci ricaverebbe un gran film. Se non lo è, dovrebbe iniziare ad appassionarsi, ma questo è un consiglio non richiesto e di consigli non richiesti ne sono pieni i giornali.
Strano sport il ciclismo, animato di strambi appassionati, gente che in un modo o nell’altro lo sport non l’ha capito davvero. Perché in questo costante procrastinare il giorno della grande vittoria, dell’incisione eterna di quel nome e cognome sulle pietre più affascinanti del Nord o sulle côtes valloni, Wout van Aert è diventata ragione di tifo, comunione di intenti, motivo di orgoglio. L’orgoglio di chi sa che la vittoria in fondo è cosa un po’ malvagia, privazione della gioia altrui. Tutta gente che è stata abituata a perdere nello sport, l’enorme maggioranza di chi vede nel ciclismo qualcosa di più di un intrattenimento.
Non c’è niente di bello nel vedere non vincere qualcuno, soprattutto se questo qualcuno è un corridore come Wout van Aert, un campione, un corridore che ha nelle gambe la possibilità di vincere qualsiasi corsa e in qualunque modo. Proverà a riprendere l’abitudine in Italia, tra il 2 e il 5 ottobre, tra Legnano (Coppa Bernocchi), Varese (Tre valli varesine) e Favria (Gran Piemonte).
Perché uno come Wout van Aert non è un perdente, è un vincente che rischia sempre di farcela, ma non sempre ce la fa. Non è un Paperino o un Wile E. Coyote, uno di quei personaggi colmi di sfortune e di ambizioni sgretolate. È più un Pippo, Wout van Aert. Uno a cui le cose non sempre vanno bene, ma che in fondo sa di avere la possibilità di essere Super Pippo, di avere un alterego a cui tutto riesce perché, in un modo o nell’altro, è un supereroe.
Sono i suoi occhi ad avvicinarci a lui, a rendercelo prossimo. Occhi buoni, così diversi da quelli intransigenti, soprattutto verso se stessi, che avevano, hanno, i campioni, quelli capaci di vincere davvero tutto. Gli occhi di chi sa che in fondo è solo sport, che c’è anche qualcosa di altrettanto importante al di fuori del ciclismo: l’amore per una donna, per i figli, per le corse, per le pedalate senza fretta e senza nessun altro obbiettivo se non quello di arrivare.
È un buono Wout van Aert, non un fesso. Sa che nel ciclismo conta vincere. E quando qualcuno lo batte si arrabbia, si infuria, vorrebbe spaccare il mondo. È terribilmente umana la rabbia: è facile cadere in essa, farsi sopraffare. Molto più difficile perdonare. Soprattutto perdonarsi, capire che si può anche non vincere e che nelle sconfitte non c’è colpa. Umano, troppo umano per essere un cannibale.