Peter Sagna (foto Ap, via LaPresse)

ciclismo

Si è conclusa l'eresia di Peter Sagan

Giovanni Battistuzzi

Il tre volte campione del mondo ha corso la sua ultima corsa della carriera con una bicicletta da corsa. In dodici anni ha stravolto quello che sino a prima era il ciclismo

La Roche-sur-Yon è una città in Vandea senza granché di bello da vedere, come lo sono in genere le città francesi cresciute in popolazione ed estensione dopo essere state scelte come centri dipartimentali. E’ parecchio napoleonica, grandi vie, palazzi stile impero, la sensazione, nemmeno troppo blanda, di fine imminente.

La Roche-sur-Yon è sede d’arrivo del Tour de Vendée, ha visto arrivare molte volte il Tour de France, ha soprattutto ospitato, in gara, le ultime pedalate su di una bicicletta da corsa di Peter Sagan. Probabilmente meritava, si meritava, di meglio Peter Sagan come palcoscenico d’addio, ma si sa che, se all’amor non si comanda, si comandano ancora meno gli interessi degli sponsor. E quelli della sua squadra sono legati alla Vandea. Avrebbe meritato un palcoscenico migliore Peter Sagan, un luogo d’addio più adatto al suo valore ciclistico: l’Avenue des Champs-Élysées, le pietre fiamminghe, il velodromo di Roubaix. Forse però, a pensarci bene, è stato giusto così. Era quello il luogo migliore per dire addio. Quella città era la materializzazione perfetta di ciò che la grande maggioranza di appassionati di ciclismo provava: la sensazione, nemmeno troppo blanda, di fine imminente. Quella di un’èra ciclistica, quella di Peter Sagan

Perché ci sono stati grandi corridori che nella storia di questo sport hanno dominato, vinto, caratterizzato un’epoca a pedali. Sono pochissimi quelli che però hanno modificato i connotati di ciò che sino al momento prima della loro apparizione era considerato la normalità. Peter Sagan è stato uno sconquasso, è stato soprattutto un’eresia. Ciò che sino a un attimo prima della sua comparsa non si credeva potesse esistere. E non tanto per il modo di correre, ma per il modo di vivere in bicicletta.

Peter Sagan ha iniziato a vincere subito, ventenne. Soprattutto ha fatto capire immediatamente che era tempo di cambiare registro, di dare un taglio con il passato.

Per decenni e decenni il ciclismo è stato uno sport di fatica e sofferenza, dove tutto girava attorno a questo. I campioni erano sofferenza, le corse erano sofferenza, i racconti erano sofferenza, a volte epica, che è nient’altro che sofferenza ma dal punto di vista degli eroi

Poi è arrivato il Giro di Romandia 2010. Era il 2 maggio, un freddo cane, pioggia a scrosci e vento gelido. Peter Sagan quel giorno terminò all’undicesimo posto. A chi gli chiese quanto fosse stato difficile finire la corsa quel giorno per un  velocista come lui, con tutte quelle salite e con quel clima, rispose: “Beh, faceva freddo, le salite erano dure, ma io mi sono divertito un casino”. Fu in quel momento che tutto ciò che era il ciclismo iniziò pian piano a sgretolarsi.

Chi va in bicicletta sa quanta fatica e sofferenza c’è nel pedalare, ma conosce anche la gioia, la soddisfazione e la meraviglia che trasmette stare sulla sella. Peter Sagan ha ricordato a tutti gli appassionati che pedalare è soprattutto una gran libidine.

Peter Sagan ha vinto tanto, tantissimo – 121 corse, tre Mondiali, un Fiandre e una Roubaix –, e poteva vincere di più. Ha sprecato occasioni, ha sprecato energie, non si è mai accontentato solo di mettere la ruota davanti a quelle dei rivali. Eppure tutto questo passerà in secondo piano. E’ già passato. “Sagan è un figo, chi se ne importa se non vince”, si sentiva dire agli arrivi e lungo i percorsi dei due Giri d’Italia che ha corso. Lo dicevano i ragazzini, quelli per cui Sagan era più di un corridore, era un idolo su e giù dalla bici, uno da amare indipendentemente da tutto.

Peter Sagan continuerà a pedalare, ma su di una mountain bike. Vorrebbe chiudere con una medaglia olimpica a Parigi 2024. Sarebbe un gran finale.

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