Un dieci da sbronza

L'equilibro di Jack Grealish, molto di più dello stereotipo del giocatore bello e dannato

Jack O'Malley

Come è possibile che un tipo così sia diventato titolare fisso del Manchester City? L’equilibrio. Jack Grealish non vive i suoi eccessi come una fuga dalla realtà, non li ostenta, non se ne vanta. Semplicemente se ne frega

C’era bisogno di più spazio del solito per contenere il lunghissimo brindisi che Jack Grealish si merita. E non perché si chiama come me, né perché è di origini irlandesi come me, né tantomeno perché quando beve ci dà dentro come me. Il fatto è che Jack Grealish ci ha fottuti tutti. In Italia guardate ancora troppa Serie A e troppa poca Premier League per rendervi conto di che pasta è fatto il numero 10 del Manchester City più forte e vincente di sempre, ed è facile accontentarsi di parlarne come di quello della sbronza colossale dopo la vittoria in Champions League contro l’Inter, o come del calciatore bravo in campo ma esagerato nella vita privata. Il fatto è che è impossibile inserire Jack Grealish in una categoria specifica, è un pezzo unico di affascinante stranezza, sfugge alla definizione di bad boy come a quella di bravo ragazzo, non è un estroso artista del calcio fine a se stesso ma neppure un mero esecutore di schemi provati e riprovati in allenamento. 

 

Grealish è forse il calciatore britannico in attività che più incarna l’essere calciatore britannico oggi. Provinciale e globale, con una storia da manuale di appartenenza al club della sua città, l’Aston Villa a Birmingham, e poi il grande salto al City degli emiri, a guardarlo in campo e conoscendo la sua passione per le serate alcoliche verrebbe voglia di infilarlo a forza nello stereotipo del giocatore bello e dannato, il fenomeno che in campo ha numeri da far venire male alla mandibola ma fuori lotta con i demoni da annegare nella pinta, l’erede dei Best, dei Tony Adams e dei Gascoigne. Il pregio più evidente di Jack Grealish è invece la sua capacità di restare in equilibrio, anche quando deve essere portato in spalla dai compagni perché troppo ubriaco per camminare. Nell’epoca bolsa dei falsi nueve Grealish ha scelto di interpretare il falso dieci: indossa il numero per eccellenza ma gioca esterno a sinistra, segna il giusto ma senza esagerare, non sarà mai nella top 5 della classifica cannonieri, si appoggia sulla punta centrale per triangolare e andare al tiro o restituire la palla lavorata alla perfezione, serve assist che i suoi compagni devono soltanto spingere in rete. Qualche anno fa Barney Ronay sul Guardian lo ha definito “un dribblatore che non dribbla veramente, ma manipola la palla con i suoi movimenti impercettibili e fatti in casa”. 

Da queste parti lo amiamo da sempre, e lo abbiamo sempre saputo perdonare perché lui sa sempre farsi perdonare. Culo basso, polpacci enormi lasciati scoperti dal calzettone abbassato con vezzo ma senza narcisismo, capelli sufficientemente lunghi e orrendamente tirati indietro da quintali di gel tenuti fermi da un elastico, Grealish sembra vestito casual anche quando indossa la stessa maglietta e gli stessi pantaloncini dei suoi compagni. “Quando corre”, diceva ancora Ronay, “sembra un uomo che fa jogging sulla spiaggia”. L’equilibrio, si diceva: Grealish eccelle in quell’arte che soltanto i migliori hanno, quella di urtare l’avversario nel momento giusto per fargli perdere il tempo, appoggiarcisi addosso per ritrovare l’equilibrio e liberarsi per il passaggio decisivo. Finta e oscilla, cade e si rialza. L’equilibrio che ha in campo è lo stesso che ha naturalmente fuori: Grealish è sia il ragazzo di Birmingham cresciuto con il sogno di giocare nell’Aston Villa sia il campione tifato in tutto il mondo e titolare della Nazionale inglese. A differenza di tanti, ha saputo resistere all’esaltazione che stampa e tifosi hanno fatto di lui, beve molto ma senza la disperata tristezza che il luogo comune esigerebbe dal suo personaggio. In Grealish c’è una leggerezza non scontata, un prendere le cose sul serio ma con ironia che andrebbe insegnata nelle scuole calcio, se solo si potesse insegnare. 

Il triduo alcolico post triplete del giugno scorso, quando è diventato il simbolo dei festeggiamenti del City a Istanbul, Ibiza e Manchester, è solo l’ultimo di una serie di episodi tipicamente british, là dove british è usato come sinonimo di drunkness. Nel 2015 venne fotografato e sputtanato dai tabloid completamente ubriaco e svenuto per le strade di Tenerife. Aveva vent’anni e giocava già nell’Aston Villa, di cui poi sarebbe diventato capitano. L’anno dopo venne trovato in condizioni pietose dopo un party probabilmente a base di hippy crack, i palloncini pieni di ossido di azoto che vengono inalati per stordirsi, e nello stesso periodo fu visto a una festa notturna dopo una sconfitta per 4-0. E’ iniziata lì la narrazione scontata del giocatore forte in campo ma debole nella vita, con il culmine moralista di quando durante il lockdown Jack posta su Instagram un video in cui invita tutti a rispettare le regole: “Stay Home. Protect the NHS. Save Lives”, dice. Poi sale in macchina e va a una festa di nascosto. Come da copione, tornando a casa all’alba si schianta contro un’auto parcheggiata, viene fotografato e nuovamente sputtanato. 

Come è possibile che un tipo così sia diventato titolare fisso del Manchester City di Pep Guardiola? L’equilibrio. Grealish non vive le sue sbronze come una fuga dalla realtà, come anestetico dalla vita, come atto di protesta, non le ostenta, non se ne vanta. Semplicemente se ne frega. Dice ho venticinque anni (oggi ventotto), mi diverto, ho alzato il gomito, sì, ma sono sempre io, non rompetemi le palle. Dopo il treble, a chi gli rinfacciava il suo essersi presentato ubriaco ai festeggiamenti ha risposto che di vincere nello stesso anno FA Cup, Premier League e Champions non gli ricapiterà mai più, se non si ubriacava ora, quando? Non finge di essere quello che non è, e nel calcio contemporaneo alla continua ricerca di buoni esempi, diete perfette e comportamenti irreprensibili è qualcosa di estremamente necessario. “Haaland è il miglior professionista che io abbia mai visto”, ha detto parlando del suo robotico compagno di squadra. “Fa di tutto: recupero, va in palestra, cure di dieci ore al giorno, bagni di ghiaccio, dieta. Non potrei mai essere così. Dopo una partita mi fa ‘Ehi, stasera non uscire a fare festa’. Io gli ho risposto di stare zitto e di andarsi a sedere nella sua vasca di ghiaccio. Siamo fatti così. Due persone diverse che stanno bene a modo loro”. 

C’è una partita precisa in cui Jack Grealish è diventato un’icona, ed è il derby del marzo 2019 contro il Birmingham, in trasferta, in Championship, la seconda divisione del campionato inglese. A inizio match l’Aston Villa guadagna un calcio d’angolo, in attesa che venga battuto Grealish cammina verso il centro dell’area, le spalle al settore dei tifosi di casa. Uno di loro scavalca, corre in campo e lo aggredisce alle spalle, dandogli un pugno sulla mascella. Grealish cade a terra, l’assalitore viene fermato da steward e giocatori. Nove calciatori su dieci sarebbero rimasti giù in preda alle convulsioni, chiedendo l’intervento dell’ambulanza e del prete per l’estrema unzione. Grealish invece si siede, ride, si alza toccandosi la bocca dolorante, dice “tutto a posto”, si mette al centro dell’area e aspetta il calcio d’angolo. Nel secondo tempo segna il gol della vittoria proprio sotto al settore dei tifosi dell’Aston Villa, e questa volta è lui a scavalcare e a buttarsi tra le braccia dei suoi fan in delirio. A fine partita dirà che è stato il giorno più bello della sua vita, che l’aggressione lo ha sorpreso ma che lui è andato avanti a fare il suo lavoro, che il suo sogno da bambino era vivere una giornata così. 

Nonostante la faccia da schiaffi che si ritrova, Grealish è in fondo amato da quasi tutti i tifosi inglesi, che urlavano a gran voce il suo nome quando Southgate lo metteva in panchina in Nazionale. Ha un’indole da sbruffone che tiene a bada, e quando piscia fuori dal vaso recupera in tackle come in campo. Dopo la vittoria della Premier 2022 era circolato un video in cui lui faceva una battuta antipatica sul centrocampista del Newcastle Almiron. Nulla di grave, ma nell’epoca dell’offesa permanente la cosa fece scalpore, i tifosi avversari si incazzarono, forse lo stesso Almiron non la prese benissimo. Nessun tweet riparatore scritto dall’ufficio stampa della squadra, però: Jack chiamò in privato un suo ex compagno del Villa oggi al Newcastle e gli chiese di portare le sue scuse ad Almiron. “Non volevo rispondere sui social media, perché in questi casi scavi solo una buca più grande”. In equilibrio e libero. Grealish sfugge alle definizioni perché se ne frega degli schemi e non è paraculo. Lo scorso agosto, durante la premiazione per la vittoria della Supercoppa europea, quando i giocatori del City hanno iniziato a sfilare sul palco stringendo le mani ai big dell’Uefa per ricevere la medaglia, Grealish è l’unico che si è accorto di una bambina cieca proprio accanto a Ceferin. Invece di tirare dritto come tutti gli altri e dare la mano al presidente, si è fermato, ha preso la mano della ragazzina, le ha parlato, e quando Ceferin gli ha fatto cenno di sbrigarsi ha chiesto di aspettare e ha continuato a parlarle. 

Di famiglia cattolica – avrei scommesso un giro di birra per tutto il mio pub che non era un moralista anglicano – quando aveva cinque anni Grealish ha perso un fratello, morto improvvisamente a nove mesi, e a cui ha spesso dedicato gol e vittorie. Ha un altro fratello, Keran, e due sorelle, Kiera e Holly. Holly soffre di paralisi cerebrale, e lui ne parla sempre come della sua “migliore amica”: “Sono molto legato alla mia sorellina. Hollie è nata prematura di tre mesi. Avevano detto che non sarebbe stata in grado di parlare, non sarebbe stata in grado di camminare e di fare un sacco di cose, e invece ecco qua, oggi ha diciannove anni e può fare tutto”. La invita allo stadio “anche se lei non può vedermi, ma è bello dopo la partita stare con lei e gli altri della mia famiglia, perché lei capisce tutto”. Durante il Mondiale in Qatar, Grealish ha fatto un’esultanza particolare dopo un gol per dedicare la rete a un bambino di Manchester con paralisi cerebrale che aveva conosciuto. “Non l’ho fatto per sensibilizzare o influenzare niente, mi è venuto naturale. Ho solo pensato che magari domani quando andrà a scuola sarà il più popolare della classe”, ha detto. “E’ proprio così che sono stato educato. Ho un buon cuore, o almeno penso di averlo”. 

Ci ha fregati tutti, Jack Grealish. Appena pensi di averlo capito, fa una finta e cambia direzione. A chi vedendo la sua tecnica il suo modo di giocare lo immagina come uno di quei calciatori pieni di sé basti sapere che appena arrivato al City si sentiva fuori posto, vergognandosi quasi di trovarsi in situazioni in cui doveva urlare a un mostro come Kevin De Bruyne di passargli la palla. Il primo anno con Guardiola infatti non è stato il suo anno migliore: spesso in panchina, ha sofferto il passaggio dal Villa ai Citizens. Ma se quella vecchia volpe di Pep vuole un giocatore, è perché sa come farlo rendere. Pazienza, e una stagione dopo Grealish è diventato titolare fisso della seconda squadra che a Manchester ha scritto la storia del calcio dopo lo United. Roba da berci su un bel po’. E brindare a un ragazzo che pur abitando tutti i luoghi comuni del calciatore moderno contemporaneamente, li vive col sorriso e senza esserne sopraffatto. 

Femmineo, depilato e curato come moda comanda, è un David Beckham meno bello ma altrettanto interessante per gli sponsor. Un anno fa è diventato il primo ambassador sportivo di Gucci, nelle foto dei festeggiamenti post Champions indossava una collana di perle, è ricercato dalle grandi marche perché incarna alla perfezione lo status di star mondiale. Sorride, Jack Grealish, come dopo il pugno del tifoso del Birmingham nel derby, come prima di ricevere palla sulla fascia e decidere se saltare il terzino avversario, come prima di alzare l’ennesima pinta per festeggiare una vittoria fregandosene del problema di dare il buono o il cattivo esempio. Ha fregato tutti perché accontenta tutti, Jack Grealish: quelli che vogliono il calciatore ubriacone e quelli che vogliono la star sensibile ai più fragili, quelli che vogliono la storia di provincia e quelli che esaltano i campioni del calcio globale, quelli che si bagnano per il calzettone abbassato e il dribbling a sorpresa e quelli che badano al sodo del risultato, quelli che amano le uscite scorrette e quelli che preferiscono i calciatori che aiutano le associazioni di volontariato. Bevila tutta, Grealish, e poi ordinane un’altra. Te la sei meritata.

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