(foto EPA)

Il foglio sportivo

Ma quanto è bello (e difficile) il mondo di Sinner

Umberto Zapelloni

L'altoatesino per diventare il numero 4 del mondo ha dovuto torturare il suo fisico e respingere accuse assurde

Il mondo di Jannik Sinner non è mai stato così bello, ma neppure così scomodo. Dopo Adriano Panatta nessun tennista azzurro si era mai seduto tanto in alto nella classifica Atp (Pietrangeli era stato numero 3 prima dell’avvento del computer), ma a Jannik non basta per stare tranquillamente sul piedistallo dove è salito battendo in meno di 24 ore Alcaraz e Medvedev e conquistando il Torneo di Pechino. Lui è come la pesca dell’Esselunga. Una geniale idea di marketing che viene presa di mira da tutti. Proprio come questo 22enne lungo lungo con i muscoli fragili e i sogni infiniti. Lo accusano di tradimento. Plurimo. Quando ha lasciato Riccardo Piatti per il nuovo allenatore e quando ha rinunciato alla maglia azzurra all’Olimpiade di Tokyo e in Coppa Davis.

 

Al rientro dagli US Open aveva preferito riposare, anziché andare a giocare i preliminari della Davis contro la Colombia, il Cile e la Svezia: non lo avesse mai fatto. Hanno cominciato a tirargli le pietre con una violenza inaudita. Gente abituata a perdonare ogni nefandezza ai calciatori, aveva sbattuto il mostro in prima pagina con l’accusa di vilipendio alla bandiera. Lo avevano trasformato nei peggiori meme, bollato con gli hashtag più vili. La maglia azzurra va onorata sempre. Deve continuare a essere il sogno di ogni bambino. Jannik qualche problema di comunicazione lo ha avuto, non c’è dubbio: passare dal “ci sarò” a un “sono troppo stanco” è stato un errore. Ma andava capito, protetto, non massacrato, come il mostro di San Candido. Ricordiamoci che nello sport di oggi, costruito su calendari folli per arricchirsi sempre di più, neppure Superman potrebbe essere sempre presente. Negli sport di squadra lo chiamano turnover. E può aiutare a vincere. Negli sport individuali che si trasformano in sport di squadra, come nelle staffette del nuoto o dell’atletica, spesso in batteria viene preservato il talento per non sfiancarlo troppo. Non è vilipendio alla maglia azzurra, è semplicemente il modo migliore per non ammazzare i nostri cavalli più dotati prima della gara più importante. Per passare il turno di Davis ci è bastato trasformare in eroe Matteo Arnaldi. E Sinner, riposato e rigenerato, è arrivato ad occupare il numero quattro al mondo, 47 anni dopo Adriano Panatta che era stato il primo a criticarlo per la rinuncia, ma adesso è stato anche il primo a complimentarsi con lui. Nessuno potrà mai dire il contrario, ma l’idea che sia arrivato così in alto a Pechino anche grazie al riposo goduto dopo New York non è peregrina.

 

Sinner è un cognome che arriva dall’Alto Adige, ma che in inglese significa Peccatore. Perfetto per chi come lui viene regolarmente accusato. Jannik gioca un tennis che logora sé stesso e l’avversario. Soprattutto quando dall’altra parte della rete c’è quel fenomeno di Carlitos Alcaraz che sta diventando la sua vittima preferita. Sinner più che un peccatore è un grande picchiatore. Il suo è sempre un gioco a chi tira più forte e non sempre il suo fisico ancora fragile, può reggere al massimo numero di giri. Ha patito ogni cosa. Una volta una vescica, un’altra volta la schiena, un’altra ancora un muscolo. Nei quarti di finale di Pechino contro il bulgaro Dimitrov ha vomitato in campo in diretta tv. Nel turno precedente aveva chiesto l’intervento del fisioterapista per un problema alla coscia destra e Evans, il suo avversario, lo aveva preso in giro facendo la sua imitazione senza l’amore che usa Fiorello quando scimmiotta Djokovic.

Nel suo cammino verso la vetta della classifica Atp, Sinner ha attraversato di tutto. Deserti e rovi. L’Italia lo aveva accolto come il messia, lo aveva messo sull’altare per incensarlo dopo le prime vittorie, vedendo in lui l’ascensore verso la gloria e quella vittoria in un torneo del grande slam che ci manca da morire. Poi, alle prime difficoltà, lo aveva mollato spostandosi su Berrettini finalista a Wimbledon nel giorno più bello del calcio azzurro recente, prima di mollare lo stesso Matteo accusandolo di distrarsi troppo perché a 27 anni si era trovato una fidanzata che in molti vorrebbero. Allora era arrivato il tempo di Musetti. Intanto Jannik portava la sua chioma rossa da un altro allenatore. Ricominciava a lavorare con una tenacia che è tipica della zona da cui arriva. Qualche volta gli sarà pure venuto il rimpianto di aver mollato lo sci per il tennis perché almeno in montagna non avrebbe sentito certe cose e poi nello sci non c’è la Coppa Davis.

 

Il lavoro, il sudore, la sofferenza in campo e quando legge certi attacchi gratuiti, lo hanno plasmato ancora di più. Gli esperti di Ubitennis dicono che “Jannik migliorerà giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, perché il tennis lo vive con una determinazione assoluta, feroce. Forse come nessun altro”. Una verità assoluta. La sua vita non è dolce come quella di Panatta che ha occupato prima di lui quel posto nel ranking. Lui è più un Verstappen della racchetta. Pensa solo al tennis come Max pensa solo a guidare. Ma la differenza è che Jannik sta in campo (tra allenamenti e partite) molto di più di quello che Max sta al volante. Il tennis è uno sport usurante. Se non ti alleni è perché stai giocando una partita. Se non ti alleni e stai giocando una partita è perché sei in viaggio tra un torneo e l’altro. Che ogni tanto possa esserci l’esigenza di tirare il fiato è umano. Quello che non è umano è essere lapidato per una scelta che ha poco a che vedere con il sentirsi poco italiano. Ma a una cosa dovrà pensare nelle prossime settimane Jannik: il 1976 d’oro di Adriano Panatta finì con la maglietta rossa addosso e la Davis piena di champagne in Cile. A Malaga non potrà mancare. Ci sono appuntamenti in cui la stanchezza deve sparire per forza. Una finale di Davis e un torneo olimpico in arrivo nel 2024. Ad un certo punto anche “un percorso di crescita” come il suo dovrà fare i conti con la realtà.

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