il foglio sportivo
Una notte dentro il Muro Giallo del Borussia Dortmund
La Südtribune è quasi verticale: 24.454 posti con una pendenza di 37 gradi. Viaggio nel Westfalenstadion, ora Signal Iduna Park, dove 81 mila tifosi fanno spettacolo.
Come in quella rubrica della Settimana Enigmistica: una gita a Dortmund. Città frequentata con regolarità dalle squadre italiane, un po’ meno dal Milan che non ci metteva piede dal dicembre 2002, quando gli allora capi di governo Silvio Berlusconi e Gerhard Schroeder avevano assistito al match gomito a gomito, congelando ai -11 gradi di temperatura (una chimera in questi tempi di global warming in cui a Milano si gira ancora in infradito). Dortmund dunque, e con lei il proverbiale Muro Giallo – anche se in tedesco (Die Gelbe Wand) suona in maniera meno minacciosa, per via di quell’articolo determinativo femminile che ingentilisce il tutto.
Il Muro Giallo è uno dei casi più classici di sineddoche calcistica. La parte per il tutto: la spianata quasi verticale da 24.454 posti, dalla pendenza di 37 gradi, che contraddistingue nel mondo la Südtribune identifica non solo il Borussia ma l’intero municipio di Dortmund, del tutto aderente alla propria squadra di calcio in maniera simile ma forse ancora più accentuata rispetto a quanto succede a Liverpool. Intanto perché Liverpool ha due squadre e non una sola (in questo, per la passione totalizzante dell’intera cittadinanza senza distinzioni di sesso, età o etnia, potremmo paragonare Dortmund a Napoli). E poi perché, beh, Liverpool perlomeno ha i Beatles – intesi non banalmente come una rock band attiva negli anni Sessanta, ma come un biglietto da visita che sappia travalicare i confini del mondo senza buttarla sul pallone. Mentre Dortmund è nient’altro che il fussball, in Germania come altrove, tanto che una delle prime immagini che accoglie i forestieri che arrivano in città essenzialmente per motivi calcistici, appena usciti dalla stazione, è il bellissimo museo della Federazione Tedesca, dove sono esposte sciccherie e memorabilia come il dischetto dell’Olimpico di Roma su cui Andy Brehme calciò il rigore della finale Mondiale 1990 o la macchina da scrivere di Sepp Herberger, il ct del mitologico Miracolo di Berna che nel 1954 rappresentò davvero, per il popolo tedesco, la fine della Seconda Guerra Mondiale. Degno di nota anche un sondaggio in tempo reale sottoposto ai visitatori: nella finale di Wembley 1966, il tiro di Hurst aveva o no superato la linea? (Quando ho votato io, i No prevalevano per il 57 per cento.)
Nient’altro che il fussball, ed è meglio così. Perché Dortmund è una città in cui il tasso di povertà è più alto rispetto al 5 per cento della media nazionale; perché la zona non è estranea ai recenti exploit dell’estrema destra di Alternative für Deutschland; perché striscia qua e là una disorganizzazione non molto teutonica, che dev’essere una specialità della zona molto più della gastronomia locale, che galleggia tra l’immangiabile e l’inesistente (tra stazione e aeroporto di Düsseldorf, scalo obbligato, non è semplicissimo trovare qualcuno che parli inglese). Non è la Germania iper-efficiente e naturalmente tesa al futuro che ci aspettiamo dalle cartoline, e naturalmente Dortmund ha poco a che spartire con la cosmopolis Berlino o l’allegra Monaco di Baviera: è un posto dove il dovere viene prima del piacere, prima si lavora e poi si fa il tifo tutti insieme, in un impianto oggettivamente magnifico che è il cuore pulsante della Germania calcistica, là dove la Nationalmannschaft ha perso in vita sua solo una volta – e ce la ricordiamo bene, la sera del 4 luglio 2006. Le impalcature del Westfalenstadion (che dal 2005 ha ceduto allo sponsor e si chiama purtroppo Signal Iduna Park, per via di una brutta crisi economica del Borussia) richiamano la siderurgia, l’acciaieria, le gru dei giacimenti di carbone: un’idea di lavoro aspro ma onesto e nobilitante. Se vogliamo, è lo stesso concept delle torri di San Siro, lo stadio a cui milioni di appassionati lo collegano all’istante. Solo che le torri tondeggianti di Milano trasmettono una sensazione di accoglienza e di opulenza discreta, mentre queste linee squadrate e spezzate, persino respingenti per chi oggi è assuefatto agli ovali degli “stadi moderni” tutti uguali a Bilbao come a San Pietroburgo, trasmettono un messaggio opposto: in questo stadio nessuno è padrone, al di fuori del Borussia e dei suoi tifosi. Insomma, per etica ed estetica, più che a San Siro lo metteremmo accanto a Marassi. Il concetto di casa, se non proprio di “tana”: una tana per 81mila.
Benché sia finita 0-0, la partita è stata appassionante, forse frenetica, ma sempre in bilico su un equilibrio sottile, tanto che negli ultimi minuti entrambe le squadre hanno cercato di vincerla pur essendo sfinite, come se fosse l’ultima giornata dei gironi invece che la seconda. Senza dubbio ha aiutato anche il clima, con il settore ospiti stipato di 4 mila milanisti che spesso ha dato sulla voce a quelli del BVB (Ballspiel-Verein Borussia), in una sfida anche canora di cui non esistono molti precedenti a livello di Champions League. Prima della partita, in sala stampa è stato distribuito un comunicato di due pagine in inglese in cui la Südtribune Dortmund si esprimeva contro il nuovo formato della Champions che entrerà in vigore dal 2024-25, spiegato nel dettaglio con una dovizia di particolari probabilmente sconosciuta alle stesse persone cui era rivolto l’appello. “La riforma delle competizioni”, si leggeva, “minaccia di spianare la strada all’universalmente criticata Superlega”. Se avete domande, concludevano, “non esitate a contattarci a [email protected]”. “Fanpolitik”: però. Molto lontani, da quassù, le tipiche prese di posizione fintamente apolitiche del tifo organizzato italiano, espresse attraverso gli sgrammaticati appelli su Facebook a munirsi di fischietto o ululato per contestare questo o quel miliardario inconsapevole.