Il Foglio sportivo
Calcio, Velasco e... vongole. Intervista a Guardiola
L'ex allenatore della Nazionale italiana di volley “mi ha insegnato che gli atleti non tutti sono uguali. Se un allenatore non ti sgrida mai, non conti”. Da Messi ad Haaland, il tecnico spagnolo si confessa
Di Guardiola si sa tutto. Articoli, libri, saggi, documentari, difficile trovare una particolarità che nessuno conosca. Eccola servita – letteralmente – sul piatto: Pep diventa matto per gli spaghetti alle vongole. Una religione culinaria che gli piace esibire mostrando una foto dalla libreria del telefono:
“Guarda questi che ho mangiato a Brescia. È una delle condizioni che ho chiesto all’amico Massimo Mauro: vengo in Italia, ma tu sai cosa voglio mangiare…”.
È stato accontentato dopo un appagante incontro organizzato al Palazzetto dello sport di Cuneo dalla Fondazione CRC in collaborazione con la Fondazione Vialli e Mauro e quella di Guardiola. Ben 3.500 ragazzi delle scuole superiori di Cuneo e provincia più qualche centinaio di ospiti per ascoltare il Guardiola pensiero, quello che si agita nella testa di un laboratorio di idee sempre in movimento. Si parla di talento, di giovani da plasmare, coltivare, crescere. Pep ne ha tre in casa: Maria, 23 anni, laureata all’Accademia di Moda Marangoni di Londra e già influencer su Instagram, Marius che a 20 anni è Ceo di tre società con base a Manchester e la quindicenne Valentina: “Non so se sono talenti, dovranno scoprirlo loro”.
Che papà è Pep Guardiola, duro coi figli come con i giocatori?
“Mi auguro di essere un papà buono, non voglio assillarli, devono volare da soli. Sono nelle migliori condizioni. Io sono nato in un piccolo paese, Santdepor, avevo un pallone, la bicicletta, i libri da studiare. Sin da bambino mi infastidivano le ingiustizie: piangevo guardando Pinocchio”.
Poi lo sport entra pesantemente nella vita, a 13 anni era già nella Masia del Barcellona.
“La mia storia non è molto diversa da quella di tutti i ragazzi che praticano sport. Andavo a scuola, studiavo, mi divertivo giocando a calcio, ma vivevo alla giornata. Non pensavo ad altro che godermi la vita. Non sognavo di diventare un grande giocatore del Barcellona, un allenatore…”.
Difficile crederci, nella storia dello sport ci sono poche avventure straordinarie come la sua.
“È così. Facendo le stesse cose poteva andare tutto diversamente. Il fattore fortuna non puoi controllarlo, ma è importantissimo nella vita. Se sono arrivato in cima lo devo a tante componenti che ho trovato per strada: un grande allenatore come Cruijff, un giocatore che va via e ti libera il posto. Ci ho messo del mio, senza dubbio: impegno e passione, ma se sono diventato un grande allenatore è perché un giorno il Barcellona mi ha scelto. Io non lo dimentico. Potevano chiamare un altro al posto mio e io ora farei altro”.
Quando diventa allenatore nella testa? Lo era già in campo?
“No, all’inizio no, ma ho trovato un tecnico, Cruijff, che mi ha fatto vedere cose che per me non esistevano fino a prima. A 26/27 anni ho cominciato a pensare che avrei fatto l’allenatore, vedendo il calcio con altri occhi, capendolo in una maniera diversa”.
A quel punto è diventata una missione. Tanto che è andato pure a giocare in Messico per alimentarla…
“Dopo Brescia e Al-Ahly, in Qatar, avevo praticamente smesso di giocare. Ma ho voluto fare sei mesi coi Dorados di Sinaloa, la terra del Chapo, con un solo obiettivo: essere allenato da Juanma Lillo, per me un punto di riferimento. Pensa ai giri della vita: anni dopo è diventato il mio vice, un braccio destro al quale non posso rinunciare. Recentemente mi ha sostituito in panchina quando mi sono operato alla schiena”.
Da calciatore ad allenatore in tempi brevi, la prima squadra del Barcellona a 37 anni. Un salto incredibile?
“Sono stato avvantaggiato dall’esperienza alla guida del Barcellona B. Giocavamo una partita alla settimana e avevo tempo di prepararla, nessun riflettore puntato addosso, niente conferenze stampa… mi sono reso conto che il lavoro mi piaceva e che allenare un ragazzo di 17/18 anni o Messi è lo stesso. Anzi, non è vero – continua ridendo – perché Messi ti fa vincere e gli altri no. Quello che intendo è che davanti a te hai solo persone. Il calcio è uguale per tutti”.
Ha vinto 36 titoli da allenatore, i primi sei nell’anno di grazia 2009.
“Sai perché? Avevo dei giocatori della Madonna! E una società straordinaria con dirigenti che mi proteggevano al 100 per cento. Io non dico che non sono bravo, non lo dico. Però c’è tanta gente che si alza alle 5 della mattina, lavora con passione, ci mette il massimo, ma non ottiene quello che meriterebbe. Da solo non puoi farcela”.
Tra i giocatori… della Madonna c’era Messi?
“È il più forte che io abbia mai visto giocare. Mi spiace per tutti gli altri, ma stiamo parlando di un fenomeno unico. Mi viene in mente un episodio. Tournée precampionato in Asia del Barcellona, lui arriva il giorno della partita direttamente dall’Argentina, distrutto, non sta in piedi. Giochiamo, siamo sullo 0-0, gli organizzatori ci dicono che se non entra Messi non ci pagano. Lo metto in campo negli ultimi 20 minuti, vinciamo 3-0 con una sua tripletta. Questo è Messi”.
Cos’ha Haaland di Messi?
“Il senso del gol, è un attaccante puro. Di quelli che ti dicono, dammi la palla vicino alla porta che segno”.
Eppure quest’anno dopo un primo tempo in cui aveva segnato due gol al Burnley, lei lo ha accompagnato negli spogliatoi rimproverandolo davanti a tutti…
“Con lui me lo posso permettere. Julio Velasco me lo insegnò anni fa in una cena che ebbi l’onore di fare con lui a Roma: ogni giocatore è diverso – mi disse – c’è quello con cui puoi parlare di tattica, quello che inviti a pranzo, quello che puoi rimproverare davanti a tutti, quello che invece devi portartelo in ufficio. Comunque ho sempre pensato che un giocatore debba essere preoccupato se il suo allenatore non gli urla dietro, vuol dire che per lui non sei importante”.
È abituato a vincere, qual è il suo rapporto con la sconfitta? Mi ricordo la dignità con cui ha preso la medaglia due anni fa quando il City perse la finale di Champions col Chelsea. L’ha guardata e l’ha baciata. Qualcuno se la sarebbe tolta il prima possibile.
“Arrivare alla finale di Champions era un successo incredibile. La tristezza per la sconfitta era enorme, ma mi dovevo vergognare perché allenavo la seconda squadra più forte in Europa? Nello sport sono più quelli che perdono rispetto a quelli che vincono. Io voglio sempre vincere. Ma non sempre va così. Ci sono anche gli altri”.
Uno come lei, deve essere un esempio?
“No, nemmeno per i miei figli. Non sono perfetto, lo dico anche ai miei giocatori: mi dispiace ragazzi ma sbaglio tanto. Ognuno deve fare la sua vita, dando il meglio. Anche chi vince prima o poi perde”.
Arrivederci in Italia, Pep. Ma si ricordi che mangiare spaghetti alla vongole a Cuneo è un po’ come mangiare la paella a Madrid…
“Tu non sai che a Madrid ci sono almeno quattro ristoranti in cui la paella è più buona che a Valencia”.
Ok, anche stavolta, ha vinto lui.