Il Foglio sportivo
Quando a sbagliare è Amleto
Da Ons Jabeur a Simone Fontecchio, perché anche i campioni fanno errori banali
Wimbledon, sabato 15 luglio 2023, finale del torneo femminile. Tutte le attenzioni sono riposte su Ons Jabeur, tennista tunisina giunta alla terza finale in uno Slam della sua carriera, la seconda consecutiva a Wimbledon. Il post-Serena Williams non è stato molto generoso di grandi campionesse, motivo per cui tutti aspettano lei, la “ministra della felicità” come è chiamata in Tunisia, dove l’intera nazione è radunata nell’attesa della storica prima vittoria di una tennista africana nel più prestigioso torneo tennistico del mondo. Jabeur parte alla grande, si porta sul 4-2, l’incontro sembra procedere verso il destino più atteso e prevedibile, anche perché a sfidarla c’è una tennista dalla forza non irresistibile, Marketa Vondrousova, approdata in finale senza nemmeno figurare tra le teste di serie. Eppure Jabeur da quel momento in poi comincia a deragliare e a commettere errori gratuiti in serie, in forme incomprensibili per il pubblico, fino a perdere il primo set. Nel secondo va in scena un copione simile: Jabeur si porta in vantaggio per 3-1, prima di un nuovo fragoroso crollo, che suscita domande e interrogativi: come può una tennista così forte e talentuosa sbagliare così tanto e in forme così eclatanti? Come può aver disimparato e dimenticato i gesti e i movimenti consueti?
Cambiamo scena. 14 settembre 2022, Berlino, quarti di finale degli Europei maschili di basket, Italia e Francia si sfidano per l’accesso in semifinale. A tredici secondi dal termine Simone Fontecchio va in lunetta per i liberi del potenziale +4, e dunque dell’accesso a una storica semifinale. È il miglior tiratore azzurro, il trascinatore tecnico della squadra, ma sbaglia il primo tiro e sbaglia anche il secondo. Anche qui gli stessi interrogativi di cui sopra: come può un cestista così forte e talentuoso sbagliare in forme così evidenti?
Nella storia dello sport l’elenco di casi e situazioni simili è lunghissimo, il contraltare delle vittorie è spesso rappresentato dal grande archivio di prestazioni negative apparentemente inspiegabili. Già, ma perché atleti evoluti falliscono sotto pressione sbagliando cose che solitamente non sbagliano, e per questo motivo ancora più vistose agli occhi del pubblico?
Il senso comune trova le sue facili risposte oscillanti tra richiami alla debolezza mentale e alla mancanza di ferocia agonistica. C’è invece una spiegazione molto più profonda e complessa, importante da analizzare per allargare la comprensione degli accadimenti sportivi. Per trovarla dobbiamo tornare alla classifica degli Sport Thinkers del 2021, dove figurava Sian Beilock, psicologa e neuroscienziata americana che da tempo conduce ricerche di laboratorio proprio per comprendere i fallimenti sotto pressione nelle performance sportive e musicali, o nei test accademici. Il suo libro Choke, il termine che nel linguaggio della psicologia designa appunto il fenomeno del “soffocamento” che strozza le performance in contesti di forte pressione esterna, è una pietra miliare in questo campo.
Serve una premessa. Le neuroscienze stanno da tempo valorizzando il ruolo delle attività cerebrali inconsapevoli. Il cervello è una macchina complessa, le operazioni coscienti sono molto dispendiose in termini di richiesta energetica, quelle eseguite in maniera automatica fanno risparmiare permettendo lo svolgersi di molteplici attività e funzioni in maniera simultanea. Lo sport fa parte di questo risparmio, la parte cosciente del cervello, localizzata nella corteccia pre-frontale, interviene nell’apprendimento iniziale dei gesti tecnici, che poi però diventa con il ripetersi costante degli stessi un automatismo richiamato in maniera automatica, la cosiddetta memoria procedurale. Qui sta il punto. La pressione esterna, data nel caso delle competizioni sportive dall’importanza della posta in palio e dalle conseguenti aspettative personali e del pubblico, in alcuni casi può alterare proprio questo meccanismo, spezzando l’automatismo inconsapevole del gesto sportivo e riportandolo sotto il controllo della parte cosciente del cervello. Gli atleti in azione sono delle grandi macchine neurobiologiche che non indugiano nel pensiero e nella riflessione, dei veri anti-Amleto. Lo sport è il regno delle decisioni rapide senza pensiero, basate su automatismi appresi e codificati, divenuti inconsci. I grandi campioni non sanno spiegare come fanno ciò che fanno, sono degli esecutori irriflessi, lo sport professionistico si configura nelle forme di una radicale anti-filosofia. La pressione può spezzare questi automatismi inducendo proprio a un eccesso di pensiero su ciò che si fa, arrivando a scomporre e analizzare il gesto tecnico nelle sue parti, indugio amletico fatale perché quella che sembrerebbe una valvola di sicurezza a fronte di un’insicurezza che arriva dall’esterno può diventare una trappola sportivamente infernale, che induce agli errori apparentemente inspiegabili di cui sopra, creando una spirale senza via d’uscita se non quella della sconfitta e del fallimento prestazionale. Pensare troppo sotto pressione fa deragliare gli atleti, invece di aiutarli. “Paralysis by analysis”, viene definita nel linguaggio specialistico, diventare appunto Amleto, il personaggio che pensa troppo prima di agire e quindi eroe anti-sportivo per eccellenza, non a caso descritto da Shakespeare con i tratti della pinguedine.
Non a caso nella nostra analisi siamo partiti da due esempi relativi a discipline sportive che, durante lo svolgimento delle proprie competizioni, offrono agli atleti molte pause per pensare, ma la casistica delle possibili situazioni da choking comprende anche i calciatori alle prese con i tiri dal dischetto, i saltatori o i lanciatori nell’atletica, i golfisti, e molto altro elencando (come dimenticare il macroscopico errore all’ultimo tiro del tiratore cinese Wang che regalò l’oro a Roberto Di Donna ai Giochi di Atlanta 1996 nella pistola 10m ad aria compressa, non a caso preceduto da una pausa per un blackout dell’impianto elettrico?). Sono interessanti anche gli studi effettuati su come questo fenomeno impatti nelle fasi playoff degli sport di squadra, quando una squadra è avanti nella serie e a un solo passo dal vincerla e ha a disposizione la partita della possibile vittoria in casa, con il pubblico che da fattore positivo può diventare uno svantaggio dagli effetti amletici e paralizzanti, aspetto confermato dai dati statistici, ma anche questo fenomeno volgarmente spiegato con il ricorso semplicistico alla teoria del braccino. Le tecniche per evitare il choking insistono proprio su accorgimenti anti-amletici, ad esempio accelerare il gesto per evitare di riflettere troppo sulla sua esecuzione, o trovare delle distrazioni su cui appuntare la mente per distoglierla, ad esempio, nel caso dei cestisti impegnati nei tiri liberi, fissare un punto del tabellone.
Da questo esame nasce uno spunto di riflessione. Quali sono le chiavi di lettura per comprendere lo sport? C’è un livello primario che è quello del godimento dello spettacolo agonistico, che emoziona e affascina su basi pre-logiche. C’è poi un livello secondario altrettanto importante, che pertiene a una lettura più ragionata dei fenomeni sportivi. Le neuroscienze ci offrono un terreno di comprensione nuovo e interessante per analizzare le regolarità dello sport, che si affianca a quello scientifico tradizionale legato alla fisiologia. Sono tuttavia aspetti che non riescono quasi mai a bucare i recinti degli addetti ai lavori e a integrarsi con il racconto giornalistico in una sana e proficua divulgazione. Nel racconto sportivo sono entrate da tempo le statistiche avanzate e i linguaggi economico-finanziari, ormai quasi tutti i tifosi sanno cos’è una plusvalenza. Neuroscienziati e psicologi dello sport, unitevi.