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Il Foglio sportivo

Il rito collettivo del rugby visto da Saint-Denis

Giovanni Battistuzzi

I colori del rugby non sono esclusivi, determinano sottoinsiemi di un unico insieme, hanno la capacità di mescolarsi senza tensione o respingimenti pur senza confondersi o sbiadire, riescono a sovrapporsi pur non essendo sovrapponibili

Parigi. Il sole del primo pomeriggio illumina la facciata sghemba della Basilica di Saint-Denis, allunga sulla piazza antistante l’ombra della torre campanaria ben al di là della recinzione che delimita il cantiere dei lavori di restauro al portale del Martirio e a quello del Giudizio. L’unico non chiuso dalle reti a trame fisse che non permettono la vista, è quello di destra, quello della Comunione. C’è comunione anche nel piazzale, ma c’entra poco o niente con quella cattolica, nulla con quella che ci si aspetta dentro e fuori una basilica che è simbolo della cristianità francese e, per secoli, è stato anche simbolo del potere della monarchia. Non Dio, né san Dionigi, né tantomeno i re di Francia si celebrano in comunione all’esterno. Il simbolo unificatore è un pallone ovale, per il quale, attorno al quale, si radunano ben poco silenziosamente gente diversa, raggruppata per colore dominante, quello delle maglie, delle sciarpe, dei cappellini. I colori del rugby non sono esclusivi, determinano sottoinsiemi di un unico insieme, hanno la capacità di mescolarsi senza tensione o respingimenti pur senza confondersi o sbiadire, riescono a sovrapporsi pur non essendo sovrapponibili.

Fuori dalla basilica di Saint-Denis, sotto l’occhio vigile di decine e decine di gendarmi e poliziotti con enormi mitra in mano – sono tempi difficili –, c’è uno dei villaggi del rugby che Parigi ha creato in funzione della Coppa del mondo che si gioca in Francia. C’è quello che c’è un po’ tutti i villaggi pensati per i tifosi di un grande evento sportivo. Bancarelle – anzi food track, che pure Oltralpe ormai la lingua francese inciampa in favore dell’inglese – dove si vende da mangiare. Bancarelle generiche dove si trova un po’ di tutto. Uno stand del merchandising ufficiale. Un maxischermo buono per la visione delle partite, con annesso palco buono per ospitare l’intrattenimento a cura degli sponsor. Giochi per i bambini, così si divertono senza intralciare i genitori quando ci sarà il rito della visione delle partite. E molte spine di birra e pile di bicchieri in plastica dura, di quelli che servono qualche euro per prenderli e lasciare poi la decisione alla gente se portarseli a casa come gadget oppure riconsegnarli.

Davanti la facciata di Saint-Denis si consuma un rituale comune, un susseguirsi di gesti che tutti conoscono, che ognuno sa che vanno fatti per il semplice motivo che una partita di rugby è una cerimonia che deve per forza seguire un cerimoniale, quello che ha iniziato a creare William Webb Ellis duecento anni fa.

Una cerimonia che fuori dal campo è fatta di brindisi e cori che in realtà sono inni, non per forza nazionali. Di strette di mano particolari e passioni universali, di racconti ovali che presuppongono sempre un passaggio all’indietro e mai uno in avanti. Quasi fosse una continuazione di quello che avviene in campo in quel ripetersi continuativo di gesti collettivi – dalla mischia alla touche – che si esaltano, a un certo punto, dall’esplosione individuale di una serpentina, un placcaggio evitatoo realizzato, un pallone schiacciato dentro l’area di meta.

   

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Ciò che un tempo avveniva dentro la basilica di Saint-Denis sembra essere colato all’esterno. Un parroco se ne va in giro con una sciarpa irlandese al collo, guarda i bicchieri mezzi vuoti di birra alzati al cielo da altri irlandesi e quelli di due scozzesi che con gli irlandesi condividevano la passione per il rugby e quella per la birra. Tra le navate della basilica, nella cripta e nel coro, sotto gli archi a sesto acuto che lì vennero utilizzati per la prima volta dall’abate Sugerio e che da lì iniziarono a diffondersi nelle chiese di tutta Europa rivoluzionando, colorando, dando luce alle chiese, uomini e donne camminavano con lo sguardo all’insù, seguendo le linee che puntano al cielo delle colonnette che si raccordano con i costoloni degli archi diagonali delle volte. Uomini e donne che guardavano le  con addosso i colori nazionali, verde Irlanda, bianco Inghilterra, rosso Galles, blu Francia, più brillante, Scozia, più cupo, aspettavano di vedere altre linee che puntavano al cielo, quelle dei pali delle porte a H poste sulle linee di porta. E sperando che il rito collettivo della partita potesse ripetersi, continuare fino alla finale allo Stade de France del 28 ottobre.

Lo Stade de France dista un chilometro e mezzo dalla Basilica di Saint-Denis. Quando si abbellisce per un grande evento lo chiamano Basilique, allo stesso modo nel quale i gallesi e gli inglesi chiamano Cathedral rispettivamente il Millennium Stadium e Twickenham.

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