il foglio sportivo
Il calcio dove non poteva giocare nessuno
Tra Olanda e Kenya la storia di Klabu la startup che fa sognare i profughi con un pallone
Fino a qualche anno fa tutto poteva essere un pallone”. Stracci, cartacce, pezzi di gomma. Questo c’era, dove vive Paul. È uno dei 70mila profughi dell’insediamento di Kalobeyei, Kenya nord-occidentale. “Qui un giorno è stato inaugurato Klabu: da allora riceviamo materiale tecnico, spazi per giocare e interagire”. Una nuova casa al centro del villaggio. “Abbiamo internet e tv. Tavoli da ping-pong. E soprattutto palloni, palloni veri. Da poter calciare senza temere che si buchino”. Non sono doni caduti dal cielo. Ma il risultato di un’inedita start-up sociale, nata in Olanda nel 2019. “Con una missione ben precisa”, spiega il fondatore Jan van Hövell: “Far tornare a vivere, attraverso lo sport, chi è costretto a sopravvivere. Dal primo progetto a Kalobeyei – il nostro ‘patronimico’: klabu significa clubhouse in swahili – ne sono seguiti altri in Bangladesh, Grecia, Paesi Bassi. Presto, col Brasile, saremo operativi in quattro continenti: l’obiettivo è aprire 50 centri entro il 2030. E coinvolgere due milioni di rifugiati”. Siamo ad Amsterdam, nella variopinta sede di Klabu. Un po’ negozio, un po’ quartier generale.
“Riflette la nostra sfaccettata identità”, inizia a raccontare van Hövell. Trentotto anni, avvocato, prestato al settore degli aiuti umanitari “grazie al lavoro dei genitori: da ragazzo li osservavo e ho capito di voler fare la mia parte anch’io. Ci è voluto un po’ per trovare l’intuizione giusta, contattare l’Onu. Ottenuto l’appoggio istituzionale siamo partiti”. Che cos’è esattamente Klabu? “L’insieme fra un’ong e una linea di abbigliamento sportivo: la seconda genera utili e contribuisce ad alimentare la prima. Il brand Klabu nasce in collaborazione con un ex designer della Nike, rifornisce i campi profughi, si vende online e qui in bottega”. Prezzo base: 59 euro a maglietta – ne indossa una anche Jan. “Stiamo iniziando a reclutare le squadre di calcio amatoriali in giro per il mondo: il sogno è venire scelti dai club professionistici come sponsor tecnico”.
Poi c’è il non profit, “l’anima del progetto Klabu. Contiamo sui piccoli risparmiatori di tutte le età. Ma la maggior parte delle risorse proviene dai grandi donatori: fondazioni private, imprese o multinazionali”. Ognuno secondo propria natura. “TP Vision, ad esempio, ci procura le televisioni Philips da installare nelle clubhouse. Aziende come Flexport si occupano della catena logistica. Mentre Kvnb”, la Federcalcio olandese, “organizza camp di allenamento dedicati”. Così Klabu ha intrapreso il suo percorso di crescita. “Siamo un team giovane, tutti tra i 25 e i 40 anni, ma in costante espansione. E abbiamo creato i primi posti di lavoro in loco: oggi stipendiamo 20 rifugiati in pianta stabile. Sono loro a gestire i centri che mettiamo a disposizione. Responsabilizzare la comunità locale è essenziale”.
A questo punto, la storia arriva a uno spartiacque. “Primi mesi del 2023. Riceviamo contatti sempre più insistenti da parte di LIV Golf: una società controllata dalla monarchia saudita”. L’Arabia, mentre frantuma gli orizzonti del calciomercato, si muove anche dietro le quinte. “Tempistiche che fanno riflettere. Eppure ci ha molto colpito la loro sincera intenzione a cooperare. E naturalmente, la cifra messa sul piatto: 10 milioni di euro”. Circa dieci volte l’intero budget di Klabu. “Non ero mai stato così combattuto: una sovvenzione del genere ci avrebbe permesso di fare il salto di specie. Ma alla fine abbiamo rifiutato”. L’orgoglio c’entra poco. “Non volevamo dipendere eccessivamente da un singolo finanziatore: il rischio, nel lungo periodo, era subire pressioni dirigenziali e deviare dalla nostra mission. O vederla associata a uno stato controverso”. Viene da ribattere che tra i partner di Klabu figura però il Psg. E in ultima analisi il Qatar. “Il dilemma si pone”, riconosce van Hövell. “Ma in primo luogo la Psg Foundation non dipende direttamente da Doha e ci sponsorizza con somme ridotte. Poi c’è un aspetto ancora più importante”. Jan prende una divisa d’oro e blu. Proviene dal campo profughi bengalese di Cox’s Bazar – il più grande al mondo, un milione di abitanti. “Vedete? C’è il logo di una squadra locale e subito sotto quello del Psg: i bambini la indossano e sognano. Non si tratta di un intangibile benefattore, ma del club che fu di Messi e di Neymar. Quando il brasiliano e l’ex rifugiata Nadia Nadim hanno vestito a loro volta questa maglia, in Bangladesh non ci potevano credere. Dunque non esiste il bianco o il nero, per le scelte etiche di finanziamento. È una scala di grigi che noi valutiamo caso per caso”.
Perché Klabu è diverso, nel mare magnum delle ong a sfondo umanitario? “La maggior parte delle iniziative sportive”, continua il suo ideatore, “è sporadica e orientata al talent scouting: tutti conoscono la storia di Alphonso Davies, la stella del Bayern cresciuta in un campo profughi del Ghana. Ecco: noi non cerchiamo il migliore, ma permettiamo a tutti di giocare”. L’altro tema è l’approccio alla comunità. “Da queste parti la quotidianità è ancora più alienante di quel che si pensa. La gente è annebbiata, avulsa dalla realtà: Klabu nasce per riaccendere una scintilla dentro queste persone, restituendo loro dignità”.
Voliamo di nuovo in Kenya, via Zoom. Paul ci aspetta nella clubhouse insieme a Jean Marie: sono il segretario locale e il refugee manager di Klabu. Vengono dall’Etiopia e dalla Repubblica democratica del Congo, hanno entrambi 26 anni trascorsi per lo più nei campi profughi. A Kalobeyei o altrove. Si dimentichi il preconcetto delle tendopoli come luogo di transito: “Qui la gente nasce, cresce e muore”, spiega Jean Marie. “Klabu ci ha insegnato a capire il nostro potenziale e a valorizzarlo nel lavoro. Sentiamo di far parte di una squadra, di avere dei ruoli e un ponte verso il mondo esterno”. È chiaro quale sia la speranza comune. Ma quando gli si chiede di immaginare il futuro, i due ragazzi non fanno castelli in aria. “Ho scoperto che mi piace scrivere: vorrei continuare a lavorare su questo”, dice Paul. “La mia passione invece è la fotografia”, ribatte Jean Marie. “Posso documentare quello che succede a Kalobeyei e partire da qui”. Parlano concreto. Guardano dritto negli occhi. È più di quanto potevamo immaginare noi.