Il Foglio sportivo
Istruzioni per l'uso di Leao, fenomeno a minuti alterni
Non è un agonista, non è tecnicamente completo, ma è intelligente e ha ancora ampi margini di miglioramento
Guarda che non sono io, quello che stai cercando”. Rafael Leao ha gusti musicali un po’ più contemporanei e cosmopoliti, ma quest’incipit di Francesco De Gregori descrive bene lo spaesamento delle sue ultime settimane. Un giocatore abituato a essere inseguito – spesso a vuoto – dai difensori di tutta Europa, ora è lui che è costretto a inseguire non si sa cosa: un obiettivo, una collocazione, un ideale che non capisce. Forse una definizione.
Sì, Rafael Leao è un grande calciatore. Senza dubbio: Mvp della Serie A 2021-22 vinta dal Milan, primattore nelle migliori serate di Champions della primavera 2023, decisivo anche nell’assenza o nelle precarie condizioni di forma esibite in semifinale contro l’Inter. 15 gol e 8 assist lo scorso campionato, già 3 gol e 3 assist in quello attuale.
No, Rafael Leao non è nemmeno lontanamente comparabile a Kylian Mbappé, un fuoriclasse dalla carriera già monumentale anche se si ritirasse domani mattina, con un Mondiale vinto e uno perso in finale nonostante una tripletta. Invece Leao non fa gol in Champions League da più di un anno, in Nazionale ha segnato solo 3 reti in 23 partite e non è mai partito titolare in una gara di Europeo o Mondiale.
Sì, Rafael Leao è una certezza di questo Milan frenetico e frastagliato. Chi lo critica fino a metterne in dubbio la titolarità, come ha fatto Arrigo Sacchi la scorsa settimana, è legato a un’ideologia calcistica molto più compatta di quelle che si praticano nel calcio di oggi, specialmente al Milan, una squadra di individualismi cercati e voluti molto più di quanto faccia l’Inter – dove forse Leao, in effetti, farebbe fatica a giocare titolare.
No, Rafael Leao non è un leader, o perlomeno non è un leader emotivo. Quest’anno contro il Verona ha persino indossato la fascia di capitano, ma anche se ha segnato il gol decisivo sembrava un bambino con addosso un costoso abito sartoriale. Numeri alla mano ne aveva pieno diritto, essendo al Milan dal 2019, ma è sembrata una piccola mossa mediatica dopo il diluvio di polemiche seguito alla partita con il Newcastle, quando un’intera serata di alti e bassi, perfettamente intonata alla sua carriera, era stata ridotta a un’unica giocata sbagliata, quel colpo di tacco fallito a metà primo tempo.
Sì, Rafael Leao è un uomo intelligente. In tempi in cui la ludopatia diventa un grimaldello lessicale per attenuare il grigiore della routine del calciatore moderno, Leao ha una vita a colori. Ha una considerazione del proprio tempo libero molto più alta di tanti suoi colleghi: fa musica, crea, ha interessi vari e originali. Il calcio non è la sua ragione di vita.
No, Rafael Leao non è un calciatore tecnicamente completo. Così come Lukaku e Osimhen, dal punto di vista fisico ha pochissimi rivali, e la sua “straripanza” atletica basta e avanza per seminare tre quarti delle difese italiane. Ha un dribbling talmente facile da risultare spontaneo, ai limiti dell’irridente, ma la giocata successiva rimane un mistero. Sbaglierà il cross? Sceglierà una conclusione banale? Ignorerà il compagno che gli detta il passaggio per forzare il tiro da posizione defilata? O invece sarà perfetto, come quest’anno due volte contro la Lazio o nell’imbucata per Theo contro il Torino alla seconda giornata? Leao non cresce mai sull’aspetto tattico del proprio calcio. Forse perché non gli interessa troppo.
Sì, Rafael Leao ha ampi margini di miglioramento. Per esempio il tiro in porta, un fondamentale non trascurabile per un attaccante: mai secco, imprendibile, definitivo. Anche quando fa gol, il pallone a volte sembra entrare solo perché la superficie custodita dal portiere è troppo larga per essere coperta interamente. Mercoledì sera Mbappé ha puntato la porta da cannibale, dritto per dritto, aveva tutto chiaro fin dall’inizio, e ha freddato il compagno di Nazionale Maignan sul primo palo come altre cento volte in carriera. Un killer con il pilota automatico. Invece Leao non ha ancora sviluppato una soluzione consolidata, il bene-rifugio tecnico alla Robben o alla Berardi; le sue scorribande sono un jazz se vogliamo eccitante, ma faticoso da seguire anche per i compagni, che difatti non sanno mai benissimo cosa aspettarsi.
No, Rafael Leao non è un agonista. Quando il Milan è rimasto in 10 contro la Juventus, Pioli ha tolto Pulisic e tutto San Siro l’ha inevitabilmente investito del ruolo di salvatore della patria: ci abbassiamo un po’ e facciamo in modo di farti arrivare il pallone il prima possibile, questo era il piano. Ma questa parte Leao non ci tiene affatto a interpretarla, anzitutto dal punto di vista emotivo: la trance agonistica non sa nemmeno cosa sia, la continuità nei 90 minuti è una pia illusione. Il linguaggio del corpo è sotto gli occhi di tutti, le lunghe pause sono funzionali alle improvvise sferzate che seminano panico e sfiancano gli avversari. Leao gioca partite di cui si può solo essere testimoni, senza illudersi di cambiargli la testa. La marcatura di Gatti, più che spietata, deve essergli parsa incomprensibile: ma che bisogno c’è di essere così cattivi?
“Se credi di conoscermi, non è un problema mio”, concludeva Francesco De Gregori in quella canzone. A 24 anni e quattro mesi, certo non pochi ora che in Champions si stanno affacciando i classe 2006, Rafael Leao è ancora un continente in gran parte sconosciuto. Più che un allenatore, servirebbe un esploratore.