Il Foglio sportivo
Cent'anni da vero Principe. La lezione infinita di Cesare Rubini
Ha conquistato l'oro nella pallanuoto ai Giochi di Londra con il Settebello, ha conquistato l’Europa con l’Olimpia. Insieme a Bogoncelli a Milano ha creato il mito delle Scarpette Rosse con 15 scudetti
Lo chiamavano il Principe, ma descrivere Cesare Rubini solo con il suo soprannome, peraltro azzeccatissimo, sarebbe riduttivo. Cesare Bruto Benito Rubini, con quei tre nomi in perenne conflitto tra loro, compirebbe 100 anni oggi, 2 novembre: è stato un vero mito dello sport italiano e la sua è una di quelle storie che bisognerebbe raccontare nelle scuole per far capire ai ragazzi il senso della vita e non solo dello sport. Trovatene un altro che è stato campione di due sport così diversi come la pallanuoto e il basket e poi è diventato allenatore e dirigente continuando a vincere come se non sapesse fare altro nella vita.
È entrato nella Hall of Fame di tutti e due gli sport, un caso unico al mondo. In piscina ha vinto 6 scudetti, un oro e un bronzo olimpico, un oro e un bronzo agli Europei; sul parquet ha vinto 15 scudetti (6 da giocatore), la prima Coppa dei Campioni dell’Olimpia e dell’Italia, due Coppe delle Coppe e poi da dirigente, accanto a un altro mostro sacro come Sandro Gamba, ha collezionato un argento olimpico a Mosca 1980 e un oro, un argento e un bronzo agli Europei. Ma anche qui non basta fermarsi davanti al suo personalissimo albo d’oro, perché Rubini è sempre andato oltre i risultati. Non aveva tempo di annoiarsi come i giovani calciatori di oggi. Lui passava dalla piscina ai campi da basket, dalla calottina alla canottiera.
Da settembre a maggio giocava a basket e da maggio a settembre a pallanuoto. Solo una volta lo obbligarono a scegliere: ai Giochi di Londra 1948 non poteva giocare sia a pallanuoto che a pallacanestro. Scelse la piscina e scrisse la storia di quello che è stato il primo Settebello. Medaglia d’oro e un premio da un milione strappato al Coni prima della finale. “E da Londra tornammo anche ricchi – ricordava - nascondendo tremila metri di seta gommata, tremila fazzoletti di seta presi a Como e bottiglie di liquore Strega (quarantotto cartoni) nelle valigie e poi rivendendo il tutto là. Il senso degli affari non mi è mai mancato”.
Ma chi è stato davvero Cesare Rubini? Il suo credo, come riportato dal bellissimo Indimenticabile scritto qualche anno fa da Oscar Eleni e Sergio Meda, recita così: “Ero un baruffante, chiedevo alla gente di non fumare nel palazzo, e poi mi presentavo in panchina con la sigaretta accesa. Arrivavo sul campo sempre dopo i giocatori e non vedevo e sentivo nessuno, soltanto la mia squadra, non salutavo gli avversari che dovevamo battere, non avevo mente che per il risultato… amavo visceralmente la mia squadra e tutti i giocatori che dirigevo. Mai avuto simpatia per una squadra che non fosse la mia… Non avevo pietà dei miei giocatori, gli allenamenti erano certo più duri di molte partite di campionato… volevo eroi lo ammetto e molti lo sono stati”. Era un uomo che incuteva rispetto a prima vista, ancora prima di sentire tuonare il suo vocione. Sapeva mettere in soggezione chiunque tranne che Sandro Gamba, che lo chiamava Rino, suo compagno di viaggio e di avventure per una vita. Una volta tornarono dagli Stati Uniti con mille paia di calze tubolari che in Italia ancora non esistevano. Un’altra cercarono di corteggiare Wes Unseld per farlo venire all’Olimpia. Ebbero più fortuna con Art Kenney che andarono a catturare in Francia e divenne una colonna del basket milanese. Quando il diciassettenne Sandro Gamba passando dagli juniores alla prima squadra dell’allora Borletti si presentò con un “Signor Rubini…”, si sentì rispondere “Qua ci si chiama per nome, il lei è abolito” cominciò davvero un rapporto unico. Era stato proprio Rubini, vedendo quel ragazzino secco che giocava su un campetto improvvisato, a chiedergli di andare a fare una prova con l’Olimpia. Il caso voleva che Gamba abitasse a 100 metri dal campo di quella che sarebbe presto diventata la sua società. L’unico errore di Bogoncelli, l’uomo che con Rubini aveva costruito il mito delle Scarpette Rosse, fu quello di non affidare proprio a Gamba la squadra che era stata di Rubini.
Il Principe aveva deciso di lasciare la panchina quando, dopo una sconfitta a Venezia aveva visto che nessuno dei suoi giocatori se l’era presa quanto lui. Si sentiva ormai fuori dal tempo. Come quando decise di smettere con la pallanuoto giocata, dopo che un ragazzetto che lo aveva picchiato come un fabbro nelle prime azioni gli si avvicinò dicendogli: “Mi scusi, non l’avevo riconosciuta”. “Come giocatore ero molto più forte nella pallanuoto”, diceva lui e le cronache confermano. Ma poi ha cambiato il basket milanese e quello italiano dalla panchina e dalla scrivania. “Non sono un tecnico, sono un personaggio”, era il titolo ad una sua intervista apparsa su Superbasket. Una mezza verità. Personaggio lo era senz’altro, ma chi lo ha affrontato, come Dan Peterson dice di lui: “Era un numero uno anche in panchina”. Proprio Dan racconta un aneddoto su Rubini: “Una volta dopo una nostra partita lo incontro al Palalido e gli dico “Cesare, ti volevo ringraziare per tutto ciò che mi hai lasciato qui e per il tuo appoggio.” Lui, un emotivo, nonostante la sua figura di uomo di acciaio, comincia a piangere, “No, no, Dan! Sono io che devo ringraziare te per ciò che stai facendo.” La verità: ciò che io facevo non era un decimo di ciò che aveva fatto lui. Ma lui aveva la qualità di ogni vero grande uomo: era riconoscente. No, non sono scoppiato in lacrime. Ma ci sono andato molto vicino. Ero commosso, emozionato, grato”. Immaginatevi uno che può commuovere Dan Peterson. Rubini e Peterson hanno tanto in in comune, una cosa soprattutto: hanno lasciato la panchina troppo presto. “Giocava con i suoi difetti, li aveva quasi tutti trasformati in virtù”, ha detto Sandro Gamba del suo amico Rino.
“Aveva la forza e la calma del guerriero sempre pronto a entrare in scena”, disse di Rubini Bill Bradley, il futuro senatore degli Stati Uniti, decisivo per farlo ammettere alla Hall of Fame di Springfield. Rubini andò a catturarlo a Oxford dove studiava, trasformandolo nello straniero di coppa dell’Olimpia Simmenthal nell’anno della prima Coppa dei Campioni. Aveva personalità e carisma. Sapeva fare squadra e per i suoi ragazzi era disposto a tutto anche se poi li massacrava in allenamento. All’inizio li prendeva anche a male parole nello spogliatoio, ma poi Bogoncelli gli insegnò a trasformare quelle sfuriate in incontri a quattr’occhi. Molto più duri, ma anche efficaci. Elegante, sempre, tanto che Gamba racconta di non averlo mai visto senza cravatta (“Solo una volta, quando incontrando John Wooden si sfilò la sua cravatta della nazionale per regalargliela”).
Era Principe e anche un po’ Padrino. Gli arbitri e gli avversari avevano soggezione. Chi stava con lui lo amava, chi stava dall’altra parte non proprio. Ma a lui stare in battaglia piaceva. Era il suo unico modo di interpretare la vita. Non accendeva mai un fuoco se non sapeva di poterlo spegnere. Aveva fatto sua una massima di Oscar Wilde: “Giocare sempre onestamente, ma quando si hanno le carte migliori”. Ma alla domanda successiva su come si comportasse se non aveva le carte migliori rispondeva duro: “Mai comprato o venduto una partita”.
L’Olimpia gli ha dedicato il suo campo. Oggi entrando al Forum leggete sul parquet Cesare Rubini Court. Un giusto tributo (come quello che gli ha dedicato la sua Trieste) a chi ha scritto la storia da chi, come Giorgio Armani, la sta ancora scrivendo e non solo nello sport.