Il Foglio sportivo
Il genio di Mou riesce a dividere anche i suoi tifosi
A Roma lo amano, ma cominciano a non capire perché sempre più spesso rinuncia a giocare in attacco
Vederlo apparire in tribuna stampa, ormai, non fa quasi più notizia. Complici le squalifiche in Europa League, José Mourinho ha scoperto questo nuovo modo di seguire le partite: lo ha fatto anche a San Siro, assistendo, però, a una prestazione che ha destato l’ira di una frangia sempre più ampia della tifoseria giallorossa. Ma l’uomo di Setubal, forte dei suoi sessant’anni spesi in larghissima parte alzando trofei in giro per il mondo, ha ormai quelle spalle larghe che solo decenni di esperienza ad alti livelli possono darti e per questo tira dritto per la sua strada, noncurante delle domande e delle timide sollevazioni popolari. Nello stadio che visse come casa per un biennio, i suoi mind games hanno improvvisamente perso forza. Inter-Roma è stata mediaticamente preparata per giorni, con sparate volutamente fuori fuoco sul caso Lukaku – non è certo la destinazione finale del belga ad aver turbato il tifo nerazzurro, ma il tira e molla estivo: è il modo che ancor li offende, volendo prendere in prestito citazioni ben più alte – e provocazioni neanche troppo velate nei confronti di Simone Inzaghi, invitato a vincere lo scudetto con venti punti di margine, oltre all’ennesima litania sulla rosa giallorossa troppo corta, nonostante un monte ingaggi che bussa alle spalle proprio di quello dei nerazzurri ma che è ampiamente al di sopra di quello di Milan, Lazio e Napoli, per non parlare di Fiorentina e Atalanta.
Così, in campo, quelle piccole provocazioni sono state azzerate da una partita in cui la Roma si è consegnata al momento del calcio d’inizio, lasciandosi prendere a scudisciate da una squadra più strutturata, ma che in campionato, sullo stesso terreno, aveva scoperto quanto può essere esposta alle difficoltà contro Sassuolo e Bologna, i cui organici non sono certamente superiori neanche a quello di questa Roma in emergenza, priva di due giocatori concettualmente indispensabili come Pellegrini e Dybala, piedi troppo dolci per potervi rinunciare a cuor leggero. Ma se il piano B è rappresentato da 81 minuti di resa sostanziale, con l’unico squillo in un colpo di testa di Cristante, seguiti da un tentativo disperato con tutte le punte gettate in campo alla rinfusa, appare evidente che qualcosa non quadra. Eppure, quello stesso piano aveva funzionato a metà maggio, blindando a Leverkusen l’1-0 della semifinale di andata di Europa League, risolta da un gol di Bove che pareva la scarnificazione del concetto stesso di gioco del calcio: ottanta metri di lancio per Abraham chiamato a battagliare in mezzo ai due centrali avversari, lo scambio con il centrocampista, la girata respinta e il tap-in proprio di Bove, uno che in campo sembra l’estensione di Mourinho, una costante dichiarazione di guerra, pronto a morire in partita pur di vincere un contrasto. Non è cambiato nulla, da quella semifinale di ritorno, è solo la legge del calcio: a volte va bene, a volte no. Rimane complesso capire perché, in alcune situazioni, una squadra che anche in difficoltà può contare su giocatori di una certa cifra tecnica (Paredes, Aouar, El Shaarawy, Lukaku, solo per rimanere a domenica sera), scelga scientemente di pensare soprattutto a non prenderle, provando a darle quando è troppo tardi.
Sarebbe ingeneroso e scorretto dire che il tifo romanista è spaccato in due parti eguali: la fotografia più attendibile è quella di una maggioranza, rumorosa e affettuosa, sempre presente sugli spalti di un Olimpico i cui sold out consecutivi ormai quasi non si contano più, che come Bove sarebbe disposta a morire per Mourinho, in una ormai pienamente accettata e dolcissima sindrome di Stoccolma nei confronti dell’uomo capace di portare nella bacheca di Trigoria la Conference League, primo trofeo Uefa della storia ormai quasi centenaria del club, e di andare a un pugno di rigori segnati da quella che sarebbe stata un’incredibile doppietta in Europa League. C’è poi un’altra parte, numericamente inferiore e certamente più silenziosa, che inizia a mostrare il volto della rassegnazione: fino a che punto è lecita la rinuncia al gioco? Può davvero essere sempre colpa di qualcun altro? Di una Lega che avrebbe dovuto collocare Inter-Roma di lunedì come le sfide di Atalanta e Fiorentina? Della gestione delle ammonizioni in una partita in cui l’unico ad aver rischiato concretamente la doccia anticipata è stato Paredes? È forse l’apoteosi del Mourinho divisivo: prima spaccava il mondo intero, tra chi era con lui e chi era contro di lui. Adesso riesce a farlo persino all’interno della sua stessa tifoseria, tra petti battuti con fare solenne e ammiccamenti all’Arabia, con un contratto ancora da rinnovare così come quello di Tiago Pinto. Resta però questo fascino, magari un po’ decadente ma ancora irresistibile. È quello con cui convince Lukaku a imbarcarsi nell’avventura romanista rinunciando ai milioni dell’Arabia, con cui seduce Dybala che, nei suoi momenti di forma, a Roma ha mostrato brani di calcio meravigliosi. Lo stesso che utilizza per ammaliare uno stadio che lo guarda come al condottiero perfetto, l’archetipo dell’uno contro tutti, che a volerlo disegnare così su un foglio di carta, probabilmente, si farebbe persino fatica: l’uomo fortissimo al comando, che mancava dai tempi di Fabio Capello, non a caso l’artefice del terzo scudetto giallorosso. Mou che è interista e Blue, merengue e dragone, eppure, a guardarlo bene, tutte queste incarnazioni sembrano meno affini al personaggio rispetto a quella attualmente in corso: più romanista dei romanisti, incendiario, menefreghista, spaccone.
I mesi che porteranno da qui alla fine della stagione saranno, a quanto sembra, gli ultimi di un matrimonio perfetto: c’è un posto in Champions da conquistare e una cartina dell’Europa con una puntina fissata su Dublino, ultimo atto dell’Europa League 2023/24. “La finale di Budapest noi non l’abbiamo persa, e lo dirò ogni volta che parlerò di quella partita”, ha ribadito un mese e mezzo fa. Il girone è ipotecato, ora c’è una classifica da scalare, un derby da vincere tra due giornate, altri mind games all’orizzonte. A fine anno, chissà, forse sarà il momento di un’altra avventura. Lo guarderemo da lontano, e ci chiederemo, ancora una volta, se non sia l’ennesima incarnazione perfetta di una carriera da stregone.