Mircea Lucescu ha detto basta
“Questa è stata la mia ultima partita. Ho dato tutto quello che potevo, negli ultimi quindici anni, al calcio ucraino. Così non si può più andare avanti: la guerra, gli stadi vuoti. Minuti di silenzio, di omertà", ha detto l'allenatore rumeno. Chissà se ci ripenserà
L’ultimo colpo di teatro di una carriera da santone giramondo se l’è lasciato per la partita del suo cuore, quella tra Dinamo Kyiv e Shakhtar Donetsk, club ai quali ha donato complessivamente quindici anni di carriera: dodici nel Donbass e gli ultimi tre, i più difficili, nella capitale. Un rapporto iniziato nel peggiore dei modi, con la rivolta dei tifosi per i suoi trascorsi nello Shakthar e le dimissioni presentate e ritirate, e concluso con un’uscita di scena che in realtà, forse, non è ancora definitiva: “Questa è stata la mia ultima partita. Ho dato tutto quello che potevo, negli ultimi quindici anni, al calcio ucraino. Così non si può più andare avanti: la guerra, gli stadi vuoti. Minuti di silenzio, di omertà. La Dinamo Kyiv avrà un bellissimo futuro, ma io non ne farò parte”. Per tutti è stato l’annuncio del ritiro dall’attività, e considerati i 78 anni di Mircea Lucescu è anche lecito pensarlo, ma non sarebbe nemmeno sorprendente vederlo, tra qualche mese, in sella a un’altra panchina, interpretando così quel “la mia ultima partita” come un “la mia ultima partita alla guida di un club ucraino”.
Cittadino del mondo, Lucescu, lo è del resto dall’inizio degli anni Novanta, quando decise di lasciare la Romania dopo aver allenato, giovanissimo, la Nazionale, e un quinquennio alla Dinamo Bucarest. Della Romania era stato anche capitano, da giocatore ai Mondiali del 1970 (occasione in cui fu messo nel mirino dal Fluminense che provò invano a portarlo in Brasile, abbozzando la trattativa direttamente con il governo di Bucarest), e l’aveva trascinata di peso, da commissario tecnico, agli Europei del 1984, eliminando proprio l’Italia. È stato un precursore, e non solo per la decisione di esplorare nuovi territori quando ancora la corrente del cambiamento non era così forte nell’Est del mondo, ma anche in termini di analisi video delle partite e, in generale, di apertura verso l’ignoto: padrone delle lingue, mente scattante, astuzia d’altri tempi. Nonostante il biglietto da visita di una Dinamo Bucarest eccellente in patria e capace di raggiungere risultati degni di nota anche in Europa, in Italia si ritrova in seconda fila: Gino Corioni prova invano a portarlo al Bologna (così come il suo pupillo, Gheorghe Hagi) e a dargli una panchina italiana è Romeo Anconetani, a Pisa, quindi Corioni riesce nel suo obiettivo a Brescia, dove Lucescu dà vita a una folta colonia di connazionali, da Raducioiu ad Hagi, da Sabau a Mateut e Lupu. Con il Brescia è un quinquennio di saliscendi, tra promozioni, retrocessioni e una Coppa Anglo-italiana. A Reggio Emilia va malissimo e allora torna a Bucarest, al Rapid. Di colpo lo ritroviamo all’Inter, passaggio imprevisto e imprevedibile per un uomo troppo silenzioso in uno spogliatoio indomabile.
Se c’è qualcosa che Lucescu ha sempre saputo fare, è reinventarsi. Raccoglie il Galatasaray di Fatih Terim dopo un altro biennio al Rapid e alza al cielo di Montecarlo la Supercoppa Europea, perché a Istanbul, a raccogliere gli assist di Hagi (ancora lui), è appena arrivato Mario Jardel che al Louis II fa due gol. In Turchia vince con il Galatasaray e con il Besiktas, quindi si lancia nella sfida più grande della sua vita: “Inventare” lo Shakhtar Donetsk, fino a quel momento sempre all’ombra della Dinamo Kyiv, eccezion fatta per l’acuto, nel 2002, di un grande allenatore dimenticato del calcio italiano come Nevio Scala. Nasce così lo Shakthar dei brasiliani, che attraversano mezzo mondo pur di mettersi agli ordini di Mircea: da Matuzalem a Elano, da Jadson a Willian e Ilsinho. I ventuno trofei nazionali ammassati in dodici anni passano quasi in secondo piano davanti al trionfo nella Coppa Uefa del 2009, vinta eliminando Tottenham, CSKA Mosca, Marsiglia e, penultimo ostacolo prima della finale con il Werder Brema, proprio la Dinamo Kyiv, la conferma plastica dello spostamento della potenza calcistica ucraina. Il destino gli regala l’ultimo atto a Istanbul, in campo vanno cinque brasiliani su undici, vanno a segno Luiz Adriano e Jadson mentre a centrocampo giganteggia Fernandinho, che presto conoscerà palcoscenici di prima grandezza. Nel 2016 si sposta allo Zenit, quindi il tentativo di restaurazione alla Dinamo Kyiv, portata al titolo nazionale al primo colpo. Adesso, fiaccato dalla guerra e dagli anni, il vecchio santone ha detto basta. Chissà se ci ripenserà.
Il Foglio sportivo - In corpore sano