Champions League
Nella vittoria del Milan contro il Paris Saint-Germain c'è la rivolta contro il calcio filosofeggiante
La squadra di Stefano Pioli ha giocato un calcio piacevole e demodé, riportando a San Siro quel modo di giocare che sembrava sparito nel filosofeggiare sul pallone: corsa, lotta, maniere dure e ripartenze
È da anni che il calcio è scivolato in dibattiti filosofeggianti, su spazi, posizioni e interpretazioni del campo, tanto da far sembrare un’anticaglia la vecchia constatazione del per vincere devi fare un gol più degli avversari. La via spagnola della nuova interpretazione del pallone è stata esportata un po’ ovunque, a volte si è trasformata in dogma, trasformando il calcio in qualcosa di ben più complesso di quanto sembrava un tempo. Eppure questo sport è sempre lo stesso e l’anticaglia conservatrice del per vincere devi fare un gol più degli avversari è comunque valida e, per realizzarla, le cose da fare sono sempre le stesse, soprattutto quando non si è i più forti in campo: avere a centrocampo almeno due giocatori che corrono e quando c’è da menare menano, difendere in tanti – in tutti, compresi gli attaccanti – e ordinatamente cercando di dare il più fastidio possibile agli avversari più forti, ripartire in contropiede e sperare che il giocatore più forte sia in giornata buona. A San Siro martedì sera, il Milan contro il Paris Saint-Germain è riuscito a fare tutto questo e ha vinto, soprattutto ha dimostrato che tanto filosofeggiare sul calcio non è necessario, perché in fin dei conti servono sempre quelle quattro cinque cose che servono da sessant’anni a questa parte. Perché piacciono a tutti le rivoluzioni, le novità, ma poi ai tifosi interessa soprattutto una cosa: vincere. E va benissimo vincere anche in modo reazionario.
Era da un po’ di tempo che Stefano Pioli aveva provato a crearsi uno spazio tra i pensatori del calcio. Aveva dovuto fare a spallate, perché lo spazio era affollato. Forse si è trovato male, forse ha pensato di non essere benaccetto. Ha fatto un passo indietro, chissà se definitivo. È tornato nella sterminata periferia del nostro calcio, quella ruspante che bada al sodo.
Anche il Milan è tornato a badare al sodo in una sera di Champions League che poteva essere un disastro, la fine di tutto. Nove minuti e il Paris Saint-Germain era già in vantaggio: gol di Milan Škriniar, che farà anche Milan di nome, ma che è ora parigino e un tempo, a lungo, interista.
Poteva essere un disastro, non lo è stato.
E non lo è stato perché Rafael Leão ha fatto quello che gli riesce meglio, ossia dribblare, superare un avversario dopo l’altro, con l’imprevedibilità del tocco e con la velocità; perché gli è riuscito quello che non gli riesce sempre, ossia segnare; perché ha fatto quello che non ha fatto quasi mai, ossia essere trascinatore, leader e quindi capace di sacrificarsi anche tornando in difesa quando serve.
Non lo è stato perché Olivier Giroud ha fatto ciò che spesso fa, ossia segnare.
Non lo è stato perché Yunus Musah, Tijjani Reijnders e Ruben Loftus-Cheek, soprattutto Loftus-Cheek, hanno coperto, recuperato palloni, corso tantissimo, e poi sono ripartiti, hanno puntato l'area avversaria, non hanno concesso ai parigini la possibilità di fare con il pallone quello che sanno fare meglio, cioè tutto, soprattutto servire il giocatore più forte, Kylian Mbappé. Il francese poteva, doveva, essere decisivo. Non è riuscito a esserlo. Si è ritrovato davanti a lungo un Davide Calabria capace di rendergli la vita difficile, di difendere alla vecchia maniera italiana, quella che non ti dava tregua, dura, a volte cattiva, senz’altro tormentosa.
Il Milan a San Siro si è rimesso addosso un vestito demodé, fatto di corsa, lotta e provincia. Il Milan ha parlato con un gioco che forse non sa esprimere i concetti calcistici raffinati di gran moda ovunque in Europa, soprattutto negli stadi ricchi, imbellettati di raffinati campioni celebrati e molto costosi, ma tant’è. Stefano Pioli non poteva perdere, la sua squadra è stata in ogni caso, se non elegante, senz’altro molto godibile, soprattutto vincente. Che era poi quello che spesso nelle ultime settimane era mancato. E si sa che in fondo conta solo questo. La raffinatezza, la prevalenza dell’estetica, spesso è un lusso che non tutti possono concedersi.
Il Foglio sportivo