Crocicchi #12
A volte un palo cambia davvero una partita. Chiedete a Milan e Inter
Il legni uguali e opposti di Tijjani Reijnders e di Walid Cheddira. Quello che finora ha detto la stagione è che i nerazzurri hanno da qualche tempo maturato il salto di qualità, da squadra ricca di talenti a top team europeo
Gli escursionisti della domenica, a loro dire immersi nella natura quale contraltare all’artificio e alla storia (tanto da pisciarci però comodamente tra gli alberi), davanti al crocicchio multiplo con possibilità prime e seconde scelgono senz’altro l’asfalto. Una volta che la malga non risponde, tanto vale sapere in anticipo come e quando raggiungere la propria vettura: se non è una strada, è l’altra. Certo non guardano in alto, a quel sacello spesso dominato da una statua bianca, esigente fatica: l’ascesa è impervia, la deadline è il tramonto, il tempo corre veloce il doppio. Solo chi ha una missione da compiere non guarda in basso, non prova vertigini sopra il ponte tibetano del proprio campionato: il Lecce se lo sarà detto, sabato a Via del Mare, mentre il Milan lo stava regolando senza più sforzo. O tutto, o niente: un colpo di reni per raddrizzarsi, oppure sprofondare davanti agli ospiti in controllo di una partita che pareva destinata dopo il primo tempo.
A comporre un quadrivio convergono molti fattori, ma è indubbio che nel caso di specie il propulsore fulminante sia stato l’entusiasmo, la spinta, il crederci con i proverbiali occhi della tigre che hanno riportato lo stadio salentino allo stato di bolgia: luogo comune per gli impianti del sud, capaci di scatenare un inferno tale da irretire lo stesso Diavolo. Chi ha assistito alla partita nei minuti attorno all’ora di gioco non aveva dubbi che il gol dei padroni di casa sarebbe arrivato, né che il Milan avrebbe subìto ancora dopo aver visto dimezzare il proprio vantaggio. Uno spirito indefinibile ma immanente non era nell’aria, era nelle cose. Di suo, il tecnico Roberto D’Aversa ha investito l’intuizione decisiva: il cambio forzato di Davide Calabria con Yunus Musah (impeccabile contro il Paris Saint Germain in Champions League), molto rischioso seppur giustificato da Stefano Pioli con la velocità necessaria a limitare Lameck Banda, avrebbe aperto praterie agli sfondamenti leccesi. Terzini non ci si improvvisa, per quanto zambrottati.
Un quarto d’ora della performance difensiva dello statunitense è bastato a convincere l’allenatore giallorosso a sostituire gli esausti Nikola Krstović e Gabriel Strefezza, rispettivamente con Roberto Piccoli e Nicola Sansone: non proprio due rincalzi: anzi i calciatori giusti al momento giusto. Ovvero proprio mentre dalla panchina opposta sorgevano i primi dubbi, se fosse stato proprio il caso di mortificare il testuale ed esperto Alessandro Florenzi, entrato poi tardivamente. Ma la frittata era fatta nel medesimo minuto in cui le uova venivano infrante: “l’esterno basso” improvvisato perdeva subito Sansone per il gol dell’1-2 da corner, poi lasciava andare il contropiede del pareggio, firmato dallo stesso Banda (opportunamente spostatosi nell’altra fascia). I gol sono stati solo la conseguenza di un atteggiamento tattico che non sempre le provinciali mostrano quando sfidano una grande e ne subiscono l’urto: il Lecce, che per tutto il primo tempo ha lasciato giocare il Milan, approfitta della svolta tattica avversaria - chi fa mercato col pensiero alle “coppie” fisse nello stesso ruolo non si accorge di sterilizzare squadra e allenatore - e diventa il gatto alle prese con il topo, senza più alcuna rassegnazione. Anche Florenzi va in bambola e assiste al colpo di testa del piccolo attaccante che si stampa contro il palo: i rossoneri vedono i sorci verdi e solo la pignoleria dell’arbitro Maurizio Abisso cancella dal campo e dal tabellino il gol di Piccoli, a quel punto anche meritato, trascinando nella bolla di sapone un’impagabile corsa collettiva verso la curva in delirio. E dire che se prima il palo colpito da Tijjani Reijnders non si fosse frapposto alla corsa del pallone verso la rete, il Milan avrebbe potuto sommergere di gol i pugliesi.
Come il montante di Reijnders ha contribuito a sospendere l’esito della partita, quello di Walid Cheddira a San Siro ha blindato la direzione del campionato: entrando, avrebbe potuto dare al Frosinone contro l’Inter la stessa scossa avvertita dall’undici di D’Aversa a mille chilometri di distanza. Una rivoluzione, quella ciociara, dove segnano i diciassettenni, i debuttanti assoluti, giovani sconosciuti che bazzicavano le serie minori all’estero e qui si divertono col fútebol bailado, col calcio leão: vengono dal Brasile e dall’Argentina, dalla Germania e dall’Albania, sanno cosa siano la Serie C e l’onesto mestiere di provincia. A condurre questa rivoluzione di nomi bisillabi e tiqui-taca brasil-coreano è nientemeno che il vituperato Eusebio di Francesco, reduce da flop totali a Marassi, al Bentegodi e al Sant’Elia: splendori e miserie del gioco del calcio.
Al di là di tutto, bisogna ormai ammettere che l’Inter ha da qualche tempo maturato il salto di qualità, da squadra ricca di talenti a top team europeo, al di là di una finale di Champions League che appariva come effimera e ora invece può consolidarsi (abbinamenti permettendo). Non lo dice più solo Pep Guardiola, senza fare pretattica: questo standing è raggiunto nonostante un mercato stentato in attacco, con doppioni debordanti a centrocampo, la rosa appena risicata in difesa, e sempre con la spada di Damocle dell’età in molti ruoli. Se il calcio del 2023 è di ali giovani, sguscianti, tecniche e potenti come Banda e Zito Luvumbo, là dove le cose contano il duello parla della classicità di Inter e Juventus. Rispettivamente sette e sei gol subiti: è questa la cifra che conta e le accomuna, entrambe prive dei difensori più quotati su scala globale (Alessandro Bastoni e Danilo sono il meglio che possono offrire). A Torino, domenica 26 novembre, lo scontro diretto dopo la sosta: per ora è Inter contro Juve, sarà ancora così il resto del campionato?