Andreazzoli ha curato le paure dell'Empoli
Dopo un inizio difficilissimo (che è costato a Paolo Zanetti l'esonero) la squadra toscana ha ritrovato la zona salvezza dopo aver battuto allo stadio Diego Armando Maradona il Napoli campione d'Italia
Dalle ceneri di un 7-0 all’Olimpico, l’Empoli è rinato come una fenice. Sembrava la fine del mondo, era soltanto l’inizio dell’ennesima incarnazione di Aurelio Andreazzoli, arrivato in sella a una squadra sperduta e spaurita, che aveva visto evaporare tutte le certezze nel breve volgere di quattro partite da incubo, con zero gol fatti e dodici subiti. Ma chi si aspettava la restaurazione nel segno del rombo, marchio di fabbrica del laboratorio Empoli, è stato smentito dal campo: Andreazzoli ha avuto il merito di ristabilire gerarchie e di scegliere un modulo diverso dalle previsioni, assecondando in parte il mercato effettuato dalla società, con un 4-3-3 che sta consentendo a Caputo di essere il fulcro del reparto offensivo e di ruotare le tante ali arrivate nel corso dell’estate, da Cancellieri al Cambiaghi-bis fino a Gyasi, con l’aggiunta di Baldanzi, fin qui tormentato dai problemi fisici ma utilizzato prevalentemente come esterno destro d’attacco, con ovvia facoltà di accentrarsi e liberare il sinistro.
Ma il calcio non è soltanto questione di moduli, formula numerica ormai sempre meno utile nella lettura di partite che cambiano faccia in base a come tira il vento. L’Empoli visto a Napoli ha saputo resistere alla tormenta negli unici due momenti di gara in cui i campioni d’Italia sono parsi all’altezza della loro storia recente, l’inizio e la fine del match: le mani (e i piedi) di Berisha hanno blindato la porta, fino al capolavoro di Kovalenko. Un gioiello non estemporaneo, simbolo del lavoro metodico svolto da Andreazzoli sulle catene di fascia: l’ala (Gyasi) che cerca la sovrapposizione del terzino (Ebuehi) bravo a premiare il rimorchio della mezz’ala (Kovalenko, appunto), peraltro tutti e tre entrati dalla panchina, a conferma di una squadra che ha già mandato a memoria i meccanismi cari al nuovo allenatore.
Ci si è messo anche un po’ di destino, perché Andreazzoli, che a lungo è stato il “tattico di Spalletti”, potrebbe aver segnato la fine dell’esperienza di Rudi Garcia a Napoli, l’uomo scelto da De Laurentiis per provare (invano) a dimenticare l’architetto del terzo scudetto azzurro. Proprio quel Garcia che, nell’estate del 2013, venne messo alla guida della Roma da Walter Sabatini dopo il tracollo del 26 maggio, finale di Coppa Italia persa contro la Lazio per un gol sghembo e pesantissimo di Senad Lulic: in quel giorno di tensione estrema, sulla panchina giallorossa c’era proprio Andreazzoli, che sembrava esserci bruciato e invece ha saputo costruirsi una carriera più che degna ai massimi livelli. Pareva in confusione non più tardi di qualche mese fa: a fine giugno aveva accettato di tornare alla guida della Ternana, che aveva lasciato a fine febbraio suggerendo all’allora presidente Bandecchi di richiamare Cristiano Lucarelli, salvo poi rescindere consensualmente il contratto a metà luglio, a pochi giorni dal raduno pre-ritiro.
Quel passo indietro arrivato in tempo utile gli ha consentito di avere più slancio nel momento in cui ha ripreso le redini dell’Empoli dopo l’esonero di Zanetti: ha ridato fiducia a Maleh, tornato a esprimersi ai livelli dell’anno di Venezia, messo in mostra il talento di Fazzini, destinato a essere il prossimo pezzo pregiato di mercato insieme a Baldanzi, e rigenerato Caputo, che ha ritrovato feeling con la porta dopo un avvio di stagione complicatissimo. Anche nelle sconfitte, l’Empoli non ha mai rinunciato a giocare, e non c’è dubbio che sia questa la strada da seguire, come insegnano altri club che si trovano al di sopra della linea di galleggiamento nonostante organici poco strombazzati a inizio stagione (Frosinone, Lecce). Sotto la pioggia del Maradona, Andreazzoli ha avuto la certezza di essere davvero tornato a casa. E per la gioia di un Aurelio, ce ne era un altro con dei grattacapi ben diversi da affrontare.