Il flop del calcio in Arabia Saudita
Poco pubblico e seguito modesto. Come sta andando la Saudi Pro League dopo il sontuoso calciomercato estivo
Potreste non esservene neanche accorti, perché in fin dei conti era la normalità fino all’altroieri, ma è probabile che non sentiate parlare del calcio degli sceicchi da settimane. Dopo un’estate in cui la Saudi Pro League ha intasato le pagine sportive dei quotidiani di tutto il mondo, sembra infatti che dalla conclusione del mercato l’attrazione verso il campionato del Golfo sia in costante indebolimento. Tanto nel vecchio continente, dove i dati televisivi testimoniano una modesta curiosità iniziale trasformatasi rapidamente in disinteresse, quanto nello stesso regno, dove il silenzio di stadi deserti racconta le difficoltà iniziali con cui è partito questo processo.
Come prevedibile, la liquidità del fondo Pif non può bastare, da sola, per colmare la distanza che separava il movimento calcistico locale dai competitor europei che sta ambiziosamente sfidando. Certo, dopo lo sbarco di Cristiano Ronaldo e una sessione di mercato da quasi un miliardo di euro di esborso, le aspettative si erano alzate; ma la scommessa sul pallone della monarchia ha preso piede con piena consapevolezza dello status quo e della ripida salita da affrontare. “Credo sia necessario un orizzonte temporale di almeno 5/10 anni per fare valutazioni”, spiega Carlo Nohra, portavoce della Spl. Chiarito che stiamo osservando ad oggi soltanto l’alba di una nuova era, dunque, come stanno andando le cose?
Pur con l’attenuante metereologica dei mesi estivi, i numeri restituiti finora dai botteghini degli stadi sono preoccupanti. La percezione dall’esterno è di una realtà quasi surreale, in cui campioni d’Europa sfilano in un’atmosfera che ricorda tristemente la Nba bubble 2020. Per fare un paio di esempi, i 90’ tra Al-Okhdood e Al-Riyadh si sono giocati davanti a 133 spettatori, mentre Jordan Henderson è stato preso di mira sui social per essere passato da Anfield ai 976 tifosi per un match dell’Al-Ettifaq. E non sono casi isolati: quasi il 20% delle gare ha attratto meno di 1.000 persone sugli spalti, l’affluenza complessiva è in calo del 10% rispetto all’anno scorso e solo i club su cui Pif ha investito massicciamente scollinano i 10.000 spettatori di media.
Allargando lo sguardo, a livello internazionale la situazione è analoga. In Italia, i diritti tv sono stati acquisiti da La7, ma le partite vengono trasmesse sul canale secondario del network e raramente raggiungono i 150.000 telespettatori o il 2 per cento di share. Dati in linea con quelli degli altri Paesi in cui Dazn e Sky hanno introdotto il campionato saudita.
Convincere gli appassionati del vecchio continente non si sta rivelando un’impresa semplice: la secolare tradizione e il radicamento del tifo sono un muro difficile da scalfire, e il livello scadente dello spettacolo proposto dall’Arabia Saudita non è certo d’aiuto. Oltre alla distanza emotiva dal contesto, infatti, l’immissione di talenti fuori scala ha spalancato il gap tra le big four (Al-Hilal, Al-Ahli, Al-Nassr e Al-Ittihad) e gli altri club, a discapito della godibilità delle partite. Una rivoluzione che ha azzerato ogni identità e trasformato i giocatori nazionali in comprimari non all’altezza, raffreddando anche le fan base saudite, soprattutto quelle più piccole.
Insomma, l’acquisizione di stelle della Champions League era il primo, necessario step per bussare alla porta del calcio che conta. Ora si deve attendere la parte organica del processo. Nel breve, è indispensabile il coinvolgimento e una maggiore comprensione del pubblico locale; sul lungo termine, lo sviluppo di infrastrutture per creare e valorizzare talenti nazionali, e quindi costruirsi una reale identità. Nella quale sia possibile percepire della passione, condicio sine qua non per l’affermazione di un prodotto sportivo.