Il Foglio sportivo
Manuela Nicolosi ci racconta com'è la vita di un'arbitra
Ligue 1, finale del Mondiale femminile, due Olimpiadi, la supercoppa maschile: che carriera. “Ho trovato invidie e tantissimi pregiudizi. Ma anche qualche gentiluomo”
Ti colpisce con il sorriso, l’entusiasmo, l’avvenenza e una certa dose di leggerezza che non sono usuali per la categoria che rappresenta. Lei è Manuela Nicolosi, biondissima romana 43enne, di professione assistente arbitrale. Passaporto italiano, ma passione e carriera sviluppata in Francia, dove è arrivata fino alla Ligue 1 per spiccare il volo con designazioni internazionali prestigiose: quattro anni fa la finale del Mondiale femminile e a seguire la finale di Supercoppa Europea maschile. Aggiungiamo due Olimpiadi, Rio de Janeiro e Tokyo.
Speranze anche per Parigi?
“Praticamente impossibile, è già un’impresa avere partecipato a due edizioni. Poi in questi ultimi giorni mi sono presa una pausa in attesa di capire se continuare”.
Prego?
“Mi sto dedicando molto ad altre attività: speaker e anche divulgatrice tramite l’app Sporters, pensata per avvicinare i giovani allo sport. Faccio delle videolezioni in cui racconto il mio cammino, dalla semplice vocazione alle grandi competizioni alle quali ho partecipato”.
È il momento quindi di aprire il libro dei racconti, a partire dagli inizi.
“Entrai allo stadio da piccola, 4 anni, per seguire la Lazio con la mia famiglia. Amore a prima vista, volevo diventare calciatrice, ma mio padre fu intransigente: non è uno sport per donne. E dire che palleggiavo senza soste in casa... niente, mio fratello più piccolo poteva giocare, io no”.
Come ne è uscita?
“Quando avevo 15 anni decisero di aprire all’arbitraggio femminile, usai i buoni uffici di mio cugino e mio zio che erano arbitri e ottenni il via libera da mio padre almeno per cominciare questo percorso”.
Un mito, un esempio da seguire?
“Senza dubbio Collina. Il migliore. Di lui mi piaceva che con lo sguardo ti faceva capire tutto incutendoti anche timore. È un aspetto su cui anche io stessa ho lavorato molto. Meglio un’espressione giusta rispetto a tante parole”.
Un viaggio che parte dall’Italia e arriva alla Francia.
"Ho arbitrato fino all’Eccellenza nel Lazio. Poi l’Erasmus in Francia e invece di rimanerci per un anno... mi sono fermata per sempre. Ho preso una seconda laurea e ho cominciato a lavorare a tempo indeterminato mentre in Italia mi offrivano solo collaborazioni. Tra studio e lavoro ho sospeso l’attività arbitrale per un paio di anni, poi ho sentito il richiamo del campo e ho ricominciato dal basso salendo piano piano di categoria. In Francia non c’è il sistema delle votazioni come in Italia. C’è un concorso nazionale, l’esame finale è scritto e non con le crocette, sono diventata bilingue e ho superato il test al sesto tentativo da quanto era difficile”.
In Francia ha anche trovato un compagno che le ha regalato una figlia.
“Sì, ma di lui, non stiamo più insieme, preferisco non parlarne. Non mi ha nemmeno sostenuta nella mia attività. Invece Celeste, 13 anni, mi accompagna spesso alle partite anche se non ha il mio stesso fuoco sacro e non seguirà le mie orme, purtroppo nemmeno come calciatrice”.
Quanti pregiudizi ha trovato in tutti questi anni?
“Tantissimi. Mi hanno anche umanamente ferito. Dopo il fischio finale, spesso mi è capitato che l’osservatore venisse negli spogliatoi cominciando la sua valutazione con “considerando che sei una donna...”. Siamo messi così. E scattava il voto negativo. A volte collegavano alla fortuna l’avere interpretato giustamente un episodio. Racconto anche questa: rispondendo a una delle prime designazioni in Ligue 2, arrivai allo stadio in auto con tre uomini della dirigenza della squadra locale. Un addetto agli ingressi mi chiese chi stessi accompagnando perché pensava che gli altri tre fossero gli arbitri. Mi è partito l’embolo, ho detto che senza di me la partita non si sarebbe giocata”.
Invidie e gelosie?
“Anche quelle. Ho avuto il privilegio di fare parte della terna della Supercoppa Europea maschile tra Liverpool e Chelsea del 2019 a Istanbul. Arbitro la grande Stephanie Frappart. A me e alla seconda assistente Michelle O’Neill lo comunicò lei stessa, in una videochiamata, dicendoci di tenersi libere per il 14 agosto. Senza specificare l’impegno. Quando scoprii che si trattava di quella finale, non volevo crederci. Ero in vacanza dopo aver toccato il cielo con un dito per avere diretto la finale del Mondiale femminile di Lione a luglio. Un’estate indimenticabile. Ebbene, ti aspetti di tutto meno che dal giorno dopo la metà dei miei colleghi maschi non mi avrebbero rivolto più la parola. Non solo in Francia, pure quelli del mio circolo in Italia dove mi allenavo. A qualche arbitro chiedemmo consigli su come affrontare la partita con due squadre inglesi, che non avevamo mai diretto. La risposta: eh... corrono. Come dire, non riuscirete a stargli dietro. Morale? Fu una partita intensa, finì ai rigori dopo il 2-2 dei tempi regolamentari. Non sbagliammo niente, non abbiamo mai usato il Var”.
A proposito, che ne pensa dell’aiuto della tecnologia?
“È un’opportunità che è stata data agli arbitri per avere una seconda occasione di giudicare un episodio. Per il fuorigioco è bianco o nero, arriva dove l’occhio umano non può. Sui rigori, rimane l’interpretazione. Per questo può risultare controverso per il pubblico”.
In campo avrà sentito le cose peggiori. Qualcosa da ricordare, anzi... da dimenticare?
“In una finale di Giovanissimi Provinciali a Roma fui minacciata di morte dalle tribune. Dovetti sospendere l’incontro, era presente la mia famiglia, mio zio chiamò i carabinieri. In campo a volte sale la preoccupazione quando i calciatori ti circondano con toni forti, urlandoti magari “cosa ci fai tu qua, non capisci niente”. Devi imparare a gestire anche questi momenti”.
C’è stato qualche gentiluomo?
“Sì certo!”
Anche col coraggio di chiederle il numero di telefono?
“Dopo ogni partita ricevo sempre qualche messaggio su Instagram da calciatori. Niente di sconveniente, per carità, controllo per curiosità i profili, vedo storie d’amore, mariti e fidanzati, sorrido e rispondo gentilmente: no grazie”.