Il foglio sportivo
Quella per il ciclismo è una passione non dopata
Le gare di oggi e gli incubi di allora. Gli anni del doping ci hanno fatto amare ancor più questo sport?
Aguardarci indietro, a riflettere su cosa siamo stati e cosa siamo ora, al fatto che ancora siamo lì, su un divano o a bordo strada a guardare le corse di ciclismo, a emozionarci ancora per uno scatto, una fuga, una volata, dobbiamo ammettere a noi stessi che siamo dei sopravvissuti. Siamo sopravvissuti al ciclismo, a quel ciclismo, quello che ha scavallato gli anni Novanta ed è entrato nei Duemila. Quel ciclismo lì, sventrato dagli scandali e dai sospetti, da quella parola che a un certo punto non volevamo nemmeno sentire più pronunciare: doping. Generazioni di donne e uomini, un tempo bambini o adolescenti, a volte infanti o nemmeno nati in quegli anni, che con quella parola, doping, ha dovuto fare i conti e ha mai avuto sconti. Sopravvissuti a tutto. Ai campioni che pensavamo campioni e che campioni lo erano comunque, nonostante gli aiuti. Alle mezze calzette spinte dalla chimica. A corridori che pensavamo miti e che invece non erano per nulla diversi da tutti gli altri uomini, pieni di debolezze e di tentativi di imboccare una qualsiasi scorciatoia pur di arrivare primi. Sopravvissuti forse perché in fondo la passione era troppa, perché le biciclette e quegli uomini in bicicletta sono un’attrattiva troppo grande per dire davvero basta. Perché forse abbiamo capito che siamo, tutti noi, donne e uomini imperfetti dentro un mondo imperfetto e voler imporre una perfezione che non esiste non ha alcun senso.
Certo qualcuno che allora era con noi a pedalare e a guardare pedalare quelli che un giorno avremmo voluto sfidare non c’è più, ha scelto di smettere di credere in tutto questo. E ora ci guarda dall’alto della spocchia di chi non capisce che senso abbia continuare a credere in qualcosa che era marcito e marcio non può che continuare a essere. Non li badiamo davvero questi qui. E chissà se chi è rimasto ha davvero fatto i conti con quello che è stato, con il doping, se davvero ha riflettuto su quegli anni e quegli amori sfioriti e diventati, a volte, disprezzo.
E chissà se, noi sopravvissuti, abbiamo pensato che quella parola lì, doping, e quegli anni lì, quelli che chiusero il Novecento e diedero il via al nuovo Millennio, sono stati non del tutto un male, anzi forse, addirittura e paradossalmente, se non un bene almeno qualcosa che ci è servito. Perché noi sopravvissuti a quegli anni, noi che in quell’enorme letamaio ci siamo passati, abbiamo capito che lo sport, questo sport, il ciclismo, in fondo non è purezza e metafora edificante, non è un modello di vita o tutte quelle altre belle favole che ci raccontano. È sport e basta. È qualcosa di incerto come le nostre vite, che passano e si muovono senza mappe o percorsi prestabiliti. Forse quegli anni ci hanno fatto capire che il ciclismo in fondo è solo e soltanto divertimento, edonismo, il piacere assoluto di vedere qualcuno pedalare capendo però quanto è duro pedalare, uno sport che ci concede il lusso di riempirci i pomeriggi, di donarci stupore. Non siamo più fedeli, come lo sport ogni tanto riduce gli appassionati, siamo diventati spettatori, capaci di apprezzare senza per forza dovere credere. Sapendo che prima o poi una botta potrà arrivare, ma che non può essere più fatale. E non ci frega niente dei vermi marini o dell’emoglobina potenziata, ci interessano solo le gare, quello spettacolo di fughe e inseguimenti, quegli uomini, campioni o non campioni, che su una bici ci fanno divertire, ci tengono compagnia. Nonostante tutto.