Il Foglio sportivo
La doppia vita di Federico Chiesa tra l'Italia e la Signora
Spalletti ci ha restituito il miglior attaccante italiano, ora tocca ad Allegri farlo divertire come in Azzurro
Due volte soprattutto ha parlato quest’anno Federico Chiesa, e ha parlato chiaro. La prima volta ad agosto, a pochi minuti dal fischio finale della prima di campionato che la Juventus aveva vinto presto e bene, 3-0 a Udine, sbranando l’avversario con una cattiveria che non si vedeva da anni. A loro volta i giocatori avevano festeggiato con foga persino sproporzionata per una partita di fine agosto, lasciando intendere che loro per primi volevano lasciarsi alle spalle le amarezze dell’anno passato anche a cominciare dal gioco. “Nel primo tempo siamo stati molto intensi e siamo andati a prenderli alti: questo è il calcio moderno. Non dobbiamo chiuderci sempre dietro ma essere anche propositivi”. E poi, ulteriormente solleticato, aveva citato la possibile arma segreta: le “nuove tattiche” di Francesco Magnanelli, l’ex bandiera del Sassuolo fresco collaboratore di Allegri.
La seconda volta una settimana fa, dopo il 5-2 alla Macedonia in cui ha segnato la prima doppietta in Nazionale eguagliando i 7 gol in azzurro di papà Enrico, rispondendo a una richiesta di spiegazione sul brutto calo di tensione che nel secondo tempo aveva portato ai due gol della Macedonia: “Non è stato un blackout, è voglia di giocare a pallone e ci sta anche subire gol. La bellezza di voler essere propositivi e voler giocare bene è che ogni tanto puoi prendere delle ripartenze e lasciare qualcosina”. Se non erano due messaggi vagamente cifrati a Massimiliano Allegri, due raffinati esercizi di dialettica ormai sconosciuta nel calcio attuale, io proprio non saprei cosa.
La stagione di Federico Chiesa ricorda una vecchia canzone per bambini di Bruno Lauzi, “La Tartaruga”: roba da mesozoico, un’era geologica a cui taluni associano la Juventus di Allegri. La tartaruga, sosteneva Lauzi, un tempo fu un animale che correva a testa in giù, così veloce “che ti sembrava un treno nella ferrovia”. “Ma avvenne un incidente, un muro la fermò, si ruppe qualche dente e allora rallentò”. L’incidente della Juve è stato lo sciagurato pomeriggio di Reggio Emilia, quando il Sassuolo approfittò di una serie di nefandezze difensive che nell’indole prussiana di Allegri non dovrebbero avere cittadinanza nemmeno nell’arco di una stagione intera. E allora la Juventus ha rallentato, ha pensato innanzitutto a corazzarsi, si è messa a testuggine e gli attaccanti sono diventati trequartisti, poi mezzali, poi regrediti a semplici podisti che se va bene tirano una-due volte a partita, non prima di spolmonarsi in lunghe e frustranti sessioni di corsa a vuoto. Parafrasando Arancia Meccanica, è la “cura Ludovico” di Max: una Juventus scientemente demineralizzata nella sua fase offensiva, limitata ai calci piazzati o a brusche ripartenze come quella che hanno portato al gol di Miretti a Firenze, la partita-manifesto della restaurazione allegriana, in cui le quattro punte alternate nei 90 minuti hanno messo insieme un solo tiro totale (ne aveva fatto un secondo Chiesa, ma era in fuorigioco). Non è precisamente la vita che sognavano da bambini i grandi attaccanti, perlomeno non Vlahovic, che difatti è finito in panchina dopo che la Juventus ha trascorso invano l’estate a cercare di venderlo; semmai è un lavoro per Moise Kean, che paga l’alto dispendio energetico con gli zero gol in stagione. È un lavoro per Chiesa? La gamba ce l’avrebbe, la voglia anche, come dimostrato lunedì sera a Leverkusen dove s’è fatto apprezzare anche per un paio di importanti recuperi difensivi. Tuttavia, a mettere una accanto all’altra l’intervista 1 e l’intervista 2, sembra che il distacco dal suo allenatore sia soprattutto ideologico.
In mezzo ci sono tre mesi di stagione in cui Chiesa era partito più forte e brillante che mai, con quattro gol nelle prime cinque giornate e un ritrovato smalto a un anno e mezzo dal grave infortunio del gennaio 2022. Ma, dopo gli schiaffi di Sassuolo, l’andamento sempre più conservativo della Juventus – premiato dalle vittorie a raffica e di una qualificazione in Champions già ipotecata a fine novembre – ha ravvivato la solita guerra di religione in seno al popolo juventino, in cui il ruolo e le prospettive di Chiesa sono uno dei primi punti all’ordine del giorno. Torniamo a parlarne oggi, all’incrocio di uno Juve-Inter cruciale per lo scudetto e sulla scia di una qualificazione agli Europei in cui Federico rappresenta l’unica certezza di Spalletti in un attacco in cui in otto partite di girone sono stati schierati otto tridenti diversi, senza cavare un ragno dal buco. In altre parole: dal momento che Chiesa è evidentemente il miglior attaccante italiano e la Grande Speranza Azzurra di un reparto inadeguato per i vertici del calcio europeo, non converrebbe a tutti riportarlo in pianta stabile nelle zolle e nel gioco che preferisce anche nel club? Con una partita a settimana e tutto il tempo del mondo per sviluppare una proposta di calcio diversa, anche al netto degli infortuni, proprio la Juventus non ha intenzione nemmeno di provarci? Allegri naturalmente ha tutto il diritto di sghignazzare a queste domande, e a supporto delle proprie idee può portare la classifica (“l’unica cosa che conta”) e una rosa che non sembra tagliata per giocare in modo troppo diverso, a maggior ragione con lo svuotamento del centrocampo avvenuto in questi mesi tra il doping di Pogba e le scommesse di Fagioli. Rimangono, indubbiamente, il “pessimismo e fastidio” del ragazzo genovese che, dopo aver saltato per infortunio gli impegni azzurri di settembre e ottobre, si sarà meravigliato dell’aria nuova respirata a novembre – anche solo perché, dopo l’umanissimo calo di tensione in una partita dominata sul 3-0, non ha visto volare giacconi o roteare cravatte stile bovari del Mississippi. La Nazionale tornerà a marzo: come dicevano quei tizi lassù al Nord, l’inverno sta arrivando. Intanto, delle nuove tattiche di Magnanelli, ahinoi, più nessuna notizia.