Il Foglio sportivo
Il dribbling infinito di Bruno Conti
“Meno tattica e più tecnica e fondamentali per far crescere i giovani”. L'intervista al dirigente ed ex attaccante della Roma
“Sono nato a Nettuno dove, sullo sfondo c’è uno dei mari più cari ai romani. Da ragazzino l’estate giocavo a baseball, lo sport che aveva regalato fama e gloria alla mia città. Ero uno ottimo lanciatore mancino e sembravo predestinato a una carriera luminosa. Un giorno la squadra di Santa Monica in visita a Nettuno, mi vide giocare. Quella sera, quando suonò il campanello della porta di casa mia, erano le dieci e avevamo già finito di cenare. Mio padre, che faceva il muratore e si svegliava alle quattro del mattino di ogni santo giorno, stava per andare a dormire. Il presidente del Nettuno Alberto De Carolis e il suo collega del Santa Monica chiesero a mio padre l’autorizzazione a portarmi in America. Lui ci pensò su una mezzoretta e poi declinò l’offerta: ‘Mio figlio è troppo piccolo e l’America troppo lontana’. Due anni dopo ero un calciatore della Roma, la squadra del mio destino”.
Doveva fa’ l’americano, e giocare a baseball, come recitava la canzone di Renato Carosone, ma non aveva l’età per fare l’emigrato. Bruno Conti, sessantotto anni per lo più vissuti a dribblare la vita, è un eterno ragazzo cresciuto in fretta a palle, palloni, la Roma e famiglia. Ammesso e non concesso che fra la Roma e la famiglia si possa, nel suo caso, tracciare una distinzione netta.
“Alla Roma mi ha portato Antonio Trebiciani, l’allenatore della Primavera, che mi aveva visto giocare l’estate prima a Nettuno in uno dei tornei dei bar. Prima avevo già fatto un provino, mi era ritrovato al cospetto di Helenio Herrera, sì proprio lui, che mi bocciò senza pensarci due volte. Disse al mio accompagnatore, il presidente dell’Anzio, che ero tecnicamente dotato, ma non avevo il fisico per giocare a pallone. Per farla breve, ero troppo basso per il calcio. Non me la presi più di tanto. In fondo anch’io pensavo che non sarei mai diventato un professionista di livello. Per me, che ero cresciuto in mezzo alla strada, in una famiglia con sette figli, il calcio era, prima di qualsiasi retropensiero, evasione e divertimento. Non me la presi più di tanto neppure quando mi bocciarono di nuovo a un provino a Bologna. La tiritera era sempre la stessa”.
Trebiciani la porta alla Roma ed è subito prima squadra…
“Sì. La mia prima volta in serie A è stata il 10 febbraio 1974. La partita era Roma-Torino. L’allenatore Nils Liedholm. Nella Primavera con me c’erano campioni del calibro di Agostino Di Bartolomei e Francesco ‘Kawasaki’ Rocca, che fecero, prima di me, il salto in prima squadra. L’anno dopo mi diedero in prestito per farmi, come si diceva allora, le ossa, al Genoa, dove sono rimasto un anno in più, come parziale contropartita dello sbarco nella capitale di Roberto Pruzzo. A volermi a tutti i costi al Genoa era stato Gigi Simoni, peraltro pesantemente criticato per aver scelto di affidarsi a un ragazzino nell’anno della improcrastinabile scalata alla serie A. Finì che la squadra conquistò la promozione e io il premio come migliore calciatore della serie B”.
Dopo il ritorno con un anno di ritardo, fu Roma per sempre…
“Mi ritrovai da subito in una squadra, destinata, da lì a qualche anno, a scrivere una delle pagine più esaltanti dell’intera storia della Roma. Furono Liedholm e il presidente Dino Viola a creare, pezzo dopo pezzo, una squadra che avrebbe vinto lo scudetto, dopo quaranta anni di attesa, e sfiorato la conquista della Coppa dei Campioni, da Ancelotti a Herbert Prohaska, da Di Bartolomei a Sebino Nela, da Ciccio Graziani a Paulo Roberto Falcao e a tutti gli altri grandi campioni”.
Prima dello scudetto con la Roma era arrivato il campionato del mondo vinto in Spagna nel 1982…
“È stata un’impresa meravigliosa e, per tanti versi, irripetibile. Ci sentiamo tutti i giorni. No, non ho un preferito. Se si parla di gruppo, non è un una parola gettata a caso. Anche quando si era creata una rivalità e, quindi, una tensione palpabile fra la Juventus e la Roma, che era arrivata così in alto da insediarne la leadership, all’interno della nazionale il rapporto con gli juventini non ne risentiva in nessun modo. Tutti per uno e uno per tutti. Eravamo e siamo rimasti uniti. Senza steccati. Senza badare al colore delle bandiere. È stato soprattutto questo il grande merito di Enzo Bearzot. Ha creato un gruppo compatto di grandi giocatori, che remavano tutti dalla stessa parte con la voglia collettiva di stupire”.
Un aneddoto inedito su Bearzot…
“Non so se è inedito, ma per me è sicuramente il più bello. La mattina dopo la vittoria contro il Brasile, che sarebbe stato lo spartiacque decisivo fra gli attacchi congiunti e l’esaltazione, fra le stecche della prima fase e la marcia trionfale. Camminava in tuta, la pipa in mano e l’immancabile borsello a tracolla. Eravamo tutti in piscina per ritemprarci dalla tensione e divertirci un po’. L’abbiamo buttato in acqua, così com’era. Lui tutto era meno che un nuotatore provetto e abbiano dovuto tuffarci e rincorrerlo per tirarlo su. Sono stati attimi di grande felicita dopo tutto quello che aveva passato: le accuse, le insinuazioni, il silenzio stampa, tutto un mondo che frettolosamente gli si era rivoltato contro”.
L’anno dopo, quello fatidico dello scudetto, non si vide sempre il vero Bruno Conti…
“Le scorie della cavalcata mondiale si fecero sentire. L’anno dopo, però, perdere la Coppa all’Olimpico, in uno stadio stracolmo di tifosi e di bandiere e, per di più, ai calci di rigori, dove purtroppo sono stato uno dei due a sbagliare, è stato, come può bene immaginare, un colpo al cuore”.
Lo vorrebbe ritirare quel rigore, magari in Paradiso, con Bruce Grobbelaar che questa volta raccoglie mestamente il pallone in fondo alla rete, come ha auspicato il suo emulo nell’errore Ciccio Graziani?
“Chi non vorrebbe ritirare un rigore calciato maldestramente, che ha impedito la più grande festa di tutta la storia di Roma calcistica. E a non buttarla dentro sei proprio tu, che quella squadra avevi da sempre sentito tua. Non ero un rigorista. Alcuni di quelli veri, come Aldo Maldera e Pruzzo, non erano fra gli undici che hanno finito la partita. Ho tirato. Ho sbagliato. Succede, ma non doveva succedere proprio allora e proprio a me. Alcuni giornalisti scrissero che nessun calciatore al mondo aveva mai vinto, in tre anni consecutivi, un campionato del mondo, uno scudetto e una Coppa dei Campioni. Quel triplete mancato, che sarebbe stato archiviato come un unicum irripetibile, ancora un po’ mi brucia, ma il calcio è questo. Ci sono anche le sconfitte e bisogna andare, e io sono andato, avanti”.
Falcao un rigore avrebbe dovuto tirarlo?
“Forse un leader come lui avrebbe potuto tirarlo, ma non se l’è sentita ed è andata come andata. Abbiamo sbagliato e abbiamo perso”.
A quale giocatore di quella squadra si sente più legato?
“Al primo posto metto Agostino Di Bartolomei, il mio capitano, il mio leader, il mio amico. Dopo Agostino, quelli rimasti più vicini al mio cuore sono Ancelotti e Pruzzo, di cui ero già stato compagno di squadra al Genoa e commilitone durante il servizio militare. Eravamo fatti per giocare insieme. Io gli passavo la palla e lui gonfiava la rete”.
Che cos’è la Roma per lei?
“È stata e rimane la mia vita. Grazie alla Roma, penso di aver dato a mio padre Andrea, che ne era un tifoso sfegatato, la gioia più grande. La ricompensa che meritava per come ha cresciuto la nostra famiglia. Con mia moglie Laura, impareggiabile sposa, madre e nonna e regista occulta della bellissima vita che abbiamo trascorso insieme, siamo ormai prossimi ai cinquanta anni di matrimonio. Ho due figli splendidi, Daniele e Andrea e ora cinque amatissimi nipotini: Bruno, Aurora, Anastasia, Manuel e Melody”.
Le piace il calcio di oggi?
“È diventato un altro calcio. Oggi si affidano ai software e preparano le partite a tavolino. Si predilige la tattica, a scapito della tecnica individuale. Mi auguro che si possa voltare pagina e ricominciare da capo. Il calcio non deve essere una scienza, più o meno esatta. C’è bisogno, soprattutto nei vivai e a livello giovanile, che si torni a insegnare i fondamentali del gioco del calcio. A volte vedi delle partite che annoiano, perché è tutta pretesa di tattica e poca tecnica e, tanto meno, fantasia. Bisogna riscoprire talenti, partendo dalla base, senza quei software, che molto spesso nascondono l’incapacità di insegnare a giocare a pallone”.
Qual è stato il gol più bello di Bruno Conti?
“In cima ne metto due. Uno è il bolide da trenta metri, che decise un derby nel 1977. L’altro, quello segnato al Perù, nel girone eliminatorio dei Mondiali, calciando di destro, che non è mai stato il mio piede, sotto l’incrocio dei pali”.
Ha fatto tutto quello che voleva fare o c’è ancora un sogno, rimasto nel cassetto, che vorrebbe diventasse realtà?
“Ho realizzato tutti i sogni possibili e immaginabili, ma io continuo a vivere dentro un sogno. È un sogno quello che esaudisco tutti i giorni, vedendo crescere sotto i miei occhi, i giovani della Roma”.