Premier League
Unai Emery è diventato grande?
L'allenatore basco ha vinto in Spagna con squadre medio grande che potevano non vincere, ha deluso altrove alla guida di squadre che dovevano vincere. Ora all'Aston Villa sta gettando le basi per altre future soddisfazioni
Divisivo. Sottovalutato. Sopravvalutato. Non esiste un giudizio univoco per definire Unai Emery, uno degli allenatori comunque più interessanti del panorama europeo e non da oggi, con l’Aston Villa primo nel gruppo E di Conference e al passo delle corazzate di Premier League, dopo anni di anonimato competitivo. Basco di nascita, giocatore dimenticabile, come tanti suoi colleghi coetanei, ha iniziato allenando il Lorca prima e l’Almeria poi, squadre con le quali ha ottenuto storiche promozioni. Da qui la chiamata a Valencia, diventandone l’allenatore più giovane e portando il club a qualificarsi tre volte consecutive per la Champions League, all’ombra della diarchia Barça-Real. La conseguente avventura allo Spartak Mosca è stata una delle più frustranti con Artëm Dzjuba che lo definì allenatoruncolo, il peggiore che avesse mai avuto. Il ritorno in Spagna, a Siviglia, è stato, invece, l’inizio di un’ascesa con pochi precedenti, vincendo tre Europa League consecutive e battendo in finale: Benfica, Dnipro e Liverpool.
Perché quella è la sua comfort zone, squadre che sanno di essere inferiori e devono fare sempre la partita della vita contro le più blasonate, trovando stimoli ovunque, mentre prepara minuziosamente la gara con giocatori che si fidano ciecamente di lui, delle sue competenze e delle sue parole; escludendo la prima condizione lo potremmo definire un simil Mourinho.
Il salto al Paris Saint-Germain è stato eccessivamente ambizioso per entrambi, anche se alla fine ha messo in bacheca una Ligue 1, due coppe di Francia, due coppe di Lega e due supercoppe; ma perdere in Champions 6-1 contro il Barcellona pesa ancora. Con l’Arsenal è stato considerato un overthinker e un tinkering, indeciso, eppure Emery si esalta nel rendere il match più difficile all’avversario per poi sferrare il colpo di grazia a partita in corso, spesso con mosse coraggiose. Le sue sessioni video sono un incubo per la squadra, lunghissime al punto che qualche giocatore diceva di portare i popcorn; pare, inoltre, che sia solito dare ai difensori delle chiavette usb per vedere le partite della squadra avversaria e studiare i movimenti degli attaccanti. In Inghilterra, tra i suoi movimenti e la sua mimica in panchina, il suo inglese poco fluente e le sue lamentele ‘latine’, è stato trasformato in un meme, un meme che adesso può guardare molti dall’alto in basso. Non è nel suo stile fare così: Unai Emery sa cosa vuol dire fare la gavetta e ha quell’aria di chi non ha niente da insegnare ma tanto da imparare, che non guasta mai.
Gli arrivi di Diaby, Pau Torres, Zaniolo e Tielemans hanno rafforzato una squadra che ha un’età media di ventisette anni. In questa stagione, solo il Newcastle genera più xG (expected goals) con la palla in gioco ed è la migliore in contropiede, effettuando due tiri a partita in transizione, la terza a realizzarne di più dopo un recupero alto, superata solo da Tottenham e Brighton.
Pau Torres ha spiegato così perché ha scelto l’Aston Villa: “Il modo in cui lavora, il modo in cui si dedica al calcio, penso che sia qualcosa che fa innamorare ogni giocatore, perché Unai ha davvero voglia di migliorare costantemente, di lavorare sodo”. Dopo avere vinto la quarta Europa League alla guida del Villarreal, contro il Manchester, ha detto: “Ho 17 partite dello United analizzate. È un successo che arriva dal lavoro, niente di più”.
La sfida contro il City di Guardiola, che con Emery e Benitez forma la triade degli allenatori spagnoli più vincenti, ci dirà di più su di lui e sull’Aston Villa di questa stagione. Con un mantra già sentito: “vincere – alla fine – è l’unica cosa che conta” e se lo pensa Unai Emery nessuno, o quasi, ha da eccepire.
Il Foglio sportivo