Il Milan in Europa League è una questione di “pedagogia alla vittoria”
La seconda coppa europea è sempre stata indigesta ai rossoneri, e ancor prima dei fasti berlusconiani. Buone ragioni perché la squadra di Pioli si impegni davvero in Europa
"Non, rien de rien, non je ne regrette rien", cantava nel 1960 Edith Piaf. Era un inno alla rinascita, dopo gli anni della malattia. Era una promessa di ripartenza, un manifesto programmatico che voleva lasciarsi alle spalle i tumulti e le delusioni della sua sfavillante ma tormentata carriera. "Je me fous du passé… Je répars à zéro". Niente di cui pentirsi, di che rammaricarsi. Niente da rimpiangere.
E non vorrebbe aver niente da rimpiangere neanche il Milan – o l’Asé Milàn, come forse avrebbe cantato la Piaf – che, fuori ai gironi di Champions League, dal prossimo febbraio giocherà l’Europa League. Nessun rimpianto per quello che non è stato e niente da rammaricarsi per quello che sarà. L’hanno detto anche i dirigenti che, con un po’ troppa baldanzosa bausciaggine – e no, niente da fare, questi qui fanno proprio fatica a non confondersi con quelli dell’altra sponda del Naviglio… – hanno dichiarato apertamente che la missione è "andare a vincerla". Il che sembrerebbe, così, di primo acchito, in contrasto con l’utilitarismo un po’ peloso di chi, qualche ora prima, si poneva come obiettivo di arrivare al 4° posto in campionato.
Sono in molti, infatti, e ce ne sono parecchi anche tra i sostenitori rossoneri, a considerare l’Europa League non solo un increscioso ripiego rispetto alla Champions, ma anche un discreto fastidio: il doppio turno supplementare a metà febbraio (lo spareggio tra le terze dei gironi di Champions e le seconde dei gironi di Europa League), e poi altre sei partite da giocare prima di raggiungere l’eventuale finale, il calendario il giovedì, il rischio di trasferte lunghe e in città che richiedono sforzi di aggiornamento di cultura geografica (ma dove sarà mai Qarabağ?)… Insomma, vista anche l’impossibilità per il momento di mettere fine alla morìa della rosa rossonera, sarebbe stato meglio evitare il disturbo e puntare al campionato – benché, diciamocelo, quanti a oggi, dicembre 2023, sono disposti a credere che l’Inter in fuga possa essere riacciuffata? – e al contentino della Coppa Italia, che “alla peggio”, sono solo cinque partite da gennaio a metà maggio.
A ben vedere, il Milan storicamente ha un rapporto assai poco felice con l’Europa League.
Andiamo a ritroso. Nel 2020-21, seconda stagione in panchina per Stefano Pioli, i rossoneri uscirono agli ottavi in un poco fortunato match di ritorno a San Siro contro il Manchester United: 1-1 all’Old Trafford e a San Siro gol decisivo e tombale di Paul Pogba, forse uno degli ultimi della sua polipesca e sdrucciolevole carriera. I Red Devils arrivarono poi in finale e persero con il Villareal dopo la sequenza di calci di rigore calciata a oltranza (era successo più o meno la stessa cosa al Milan, nello spareggio all’ultimo respiro contro i non illustrissimi portoghesi del Rio Ave, nella però vittoriosa serata di tregenda a Vila do Conde: forse il bonus fortuna si era esaurito proprio lì).
Nella stagione 2018-19 l’avventura in Europa League terminò già nella fase a gironi, con il Milan di Gattuso sconfitto all’ultima partita in casa dei greci dell’Olympiakos Pireo ed eliminato per peggior differenza reti. L’anno prima fu inappellabile il match negli ottavi di finale contro l’Arsenal: 0-2 a San Siro, 1-3 a Londra. Rino aveva sostituito a novembre Montella che aveva però avuto il merito, l’anno prima, di aver riportato i rossoneri a giocare una coppa europea dopo tre stagioni di mediocrità più che purgatoriale. Era intanto finita ad aprile 2017 l’era Berlusconi, periodo in cui l’allora Coppa Uefa – è diventata Europa League solo dal 2009-10 – essendo stati abituati per anni al caviale e champagne del “gran ballo” della Coppa dei Campioni-Champions League, era considerata alla stregua di una sciapissima mensa popolare. Con molto poco appetito infatti i rossoneri vi si cimentarono nel 2008-09, venendo estromessi ai sedicesimi di finale dal Werder Brema (doppio pareggio: 1-1 in Germania e 2-2 in casa); nel 2001-02 – prima stagione in panchina per Carlo Ancelotti, subentrato a Fatih Terim – sconfitti in semifinale dal Borussia Dortmund (0-4 e 3-1); nel 1995-96, ultima stagione di Fabio Capello, estromessi ai quarti dopo cocente rimonta subita dal Bordeaux di Zinedine Zidane (2-0 a San Siro e 0-3 in Francia); e infine, nel 1987-88, stop al secondo turno, fatti fuori seccamente dall’Espanyol (0-2 e 0-0), una sconfitta che per poco non soffocò sul nascere le ambizioni, e poi la fortunata epopea, di Arrigo Sacchi alla sua prima stagione in rossonero.
Ancora un passo indietro: l’11 dicembre 1985 l’eliminazione negli ottavi di finale del Milan di Liedholm, tenuto in gioco dai gol di Pietro Paolo Virdis (6 in 5 partite), per mano dei belgi del Waregem scatenò la contestazione dei tifosi ai danni di Giussy Farina, preludio della crisi societaria che porterà nel febbraio al passaggio a Silvio Berlusconi. Gli ottavi e il mese di dicembre furono sempre fatali al Milan in Coppa UEFA sia nella stagione dello scudetto della Stella, eliminato con perentorio 0-3 a Manchester, sponda City; sia due anni prima, contro l’Athletic Bilbao, quando il 3-1 a San Siro non bastò a rimontare l’1-4 subito al San Mames. Nel marzo del 1976, questa volta ai quarti, toccò al Bruges giustiziare i rossoneri (0-2 e 2-1).
Ma che la Coppa Uefa non si addicesse al Milan lo si capì fin dalla sua prima edizione: stagione 1971-72, il Milan di Nereo Rocco arrivò in semifinale contro il Tottenham, ma perdette al White Hart Lane per 2-1 (doppietta di Steve Perryman, recordman di presenze con gli Spurs, che ribaltò il vantaggio di Romeo Benetti) e non riuscì a rimontare a San Siro, non andando oltre l’1-1 (Mullery e pareggio di Rivera su rigore). I londinesi avrebbero poi vinto la finale nel derby contro il Wolwerhampton.
Insomma, in oltre cinquant’anni la Coppa Uefa, o Europa League che dir si voglia, non è mai stato il giardino di casa Milan. Sarebbe appunto un motivo in più adesso per giocarsela fino in fondo. Perché se anche la proprietà conviene che il rilancio societario passi soprattutto dai titoli sportivi – e, vivaddio, non solo dalle operazioni immobiliari e dalle strategie di marketing globale – tanto vale che la Banda di Pioli – fintanto che sarà sua… - ci provi per davvero. Per lo meno per una questione di “pedagogia alla vittoria”. Vincere insegna a vincere e, a ben vedere, nell’attuale rosa del Milan i giocatori che sanno come si fa a sollevare il trofeo in una competizione internazionale per club di fatto sono soli i tre ex del Chelsea, anzi soprattutto Olivier Giroud (una Europa League e una Champions) e Christian Pulisic (una Champions, una Supercoppa Ueufa e una Coppa del Mondo per club), giacché Ruben Loftus-Cheek è stato comprimario nella vittoria della Europa League e della Supercoppa che figurano nel suo palmarès. E ancor più inessenziale è stato il contributo dei due ex madridisti Theo Hernandez e Luka Jovic e dell’ex Villareal Samuel Chukweze, nelle vittorie internazionali che arricchiscono formalmente il loro curriculum, ovvero Champions, Supercoppa, Mondiale per club ed Europa League.
Quindi, per tornare alla Piaf e non avere rimpianti di nessuna sorta, a Milanello fin da oggi conviene intonare in coro Non, rien de rien, non je ne regrette… Rennes. Lo stesso che parte a bomba nella scena finale di The Dreamers di Bernardo Bertolucci. Tanto sognare non costa fatica. Segnare un po’ di più.