Serie A
De Pafundi. Il calcio italiano ha un problema coi giovani, ma non quello che pensate
Davvero in Serie A non si fanno giocare i talenti italiani? No. Il caso del giovane attaccante dell'Udinese che non gioca anche se tanti vorrebbero che giocasse
Per anni si è detto che l’Italia non fosse un paese per giovani calciatori. Era più che altro una ciancia buona per sottolineare il fatto che se presunti futuri campioni non trovavano spazio era tutta colpa di allenatori e dirigenti. Una buona parte, la quasi totalità, di quei presunti futuri campioni poi campioni non lo sono diventati. La lista è lunghissima. Alcuni hanno avuto problemi fisici, altri non hanno mai trovato un allenatore volenteroso di dar loro minuti, altri ancora sono stati respinti dalla prova del campo. Viene da chiedersi se campioni lo fossero davvero oppure fosse solo un abbaglio di sedicenti esperti pallonari. A considerare i recenti “successi” della Nazionale – Europeo a parte, che con il senno del poi si è rivelato una magnifica congiuntura calcistica-astrale – verrebbe da essere scettici sulla nostra capacità di valutare il talento.
L’ultimo della lista è Simone Pafundi dell’Udinese. E a Udine in campo è sceso ben poco. L’attaccante di Monfalcone, un po’ trequartista un po’ ala destra, dovrebbe essere mandato in prestito in Serie B. La notizia ha fatto inorridire molti. Ma come, si sono chiesti, abbiamo un giovane campione e il suo club non lo sa valorizzare?
Questa domanda è stata la premessa per considerazioni, le solite, sull’impossibilità per i giovani italiani di giocare nel nostro paese. I dati però dicono che non è così. Negli ultimi anni il minutaggio degli under 21 in Serie A è costantemente aumentato e ormai il divario che ci separa da Bundesliga e Liga (la Ligue 1 francese è inarrivabile, ma l’attrattività del campionato è decisamente inferiore) è minimo e la Premier League è stata già ampiamente superata. Alla faccia delle lodi per il coraggio di far giocare i vari Alejandro Garnacho, Lewis Miley, Rico Lewis e compagnia.
Se c’è un problema è la tendenza di prendere un caso specifico, senza considerare il contesto. Se qualche anno fa Gigio Donnarumma si è ritrovato titolare a sedici anni è perché già a sedici anni meritava il posto da titolare. Semplicemente era il più forte dei tre portieri del Milan. Se Simone Pafundi gioca poco, probabilmente è perché merita di giocare poco. Quale sia la causa non ci è dato saperla, ma chi è seduto sulla panchina dell’Udinese probabilmente la conosce. Se Simone Pafundi gioca poco non per questo tutti i giovani in Italia giocano poco. C’è chi in campo ci finisce sempre, chi spesso e volentieri, chi meno. E se Jude Bellingham a nemmeno vent’anni era già titolare nel Real Madrid non è perché ha giocato molto da subito, ma perché è semplicemente uno dei più forti calciatori in circolazione, indipendentemente dall’età.
Il problema del calcio italiano con i giovani non sembra essere il numero di minuti concessi ai calciatori, più che altro il talento. Ci sono molti giocatori bravi, qualcuno ottimo, nessuno sembra capace di incantare il mondo intero. Altrimenti avrebbero seguito l’esempio di Gigio Donnarumma. A questo poi si aggiunge il doppio paternalismo nazional-calcistico: la tendenza a proteggere e vezzeggiare in tutti i modi i più giovani convinti della loro fragilità e allo stesso tempo la condiscendenza nei loro confronti, quasi sia peccato capitale muovere loro critiche e lavate di capo. Qualche anno fa Gianluigi Buffon disse: “Nevio Scala mi lanciò titolare a 17 anni contro il Milan. Poi mi ricacciò in panchina perché avevo fatto qualche cazzata di troppo. Gli devo molto, a quell’età è giusto, formativo, prendersi qualche sberlone morale, serve di lezione per il futuro”. Se Pafundi è un campione lo dirà il tempo, intanto sarebbe meglio ragionare sulla nostra capacità di valutazione del talento.