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Da due stagioni la Roma di Mourinho sembra giocare sempre la stessa identica partita
A prescindere dall’avversario che si trova davanti, la squadra di Mou esprime un calcio arcaico e straziante, dove gli attaccanti faticano non a segnare, ma addirittura a tirare in porta
La situazione è diventata disturbante intorno alle 20 di mercoledì scorso. E non tanto perché i giallorossi hanno perso un derby angoscioso e disperato che poteva valere un pezzetto di stagione. La parte peggiore della storia, infatti, è un’altra: la Roma di José Mourinho ha perso giocando esattamente come la Roma di Mourinho. Un paradosso. O forse no. Nelle ultime due stagioni i capitolini non hanno fatto altro che vivere le stesse situazioni ogni settimana. Possono cambiare gli avversari, i colori delle maglie, le competizioni, i nomi degli stadi, eppure la Roma sembra giocare sempre la stessa identica partita, come un Ebenezer Scrooge che non fa altro che ricevere la visita del fantasma del Natale passato. Un cortocircuito temporale che ha dato vita a una sorta di deja-vu permanente, dove nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto resta uguale a se stesso. Giorno dopo giorno dopo giorno. Senza soluzione di continuità. Così i problemi che avevano afflitto il club lo scorso anno sono diventati i problemi che affliggono il club in questo anno.
La rosa è rimasta corta, gli infortuni sono ancora devastanti, i cartellini rossi continuano a piovere sulla testa dello staff, le gerarchie che dovrebbero separare i titolari dalle riserve sono labili e sfumate. A prescindere dall’avversario che si trova davanti, la squadra di Mou esprime un calcio arcaico e straziante, dove gli attaccanti faticano non a segnare, ma addirittura a tirare in porta (contro la Lazio la prima conclusione nello specchio è arrivata con Belotti nell’ultimo quarto d’ora, con il risultato già compromesso). Non è un caso che a tracciare il confine fra una sconfitta e la vittoria siano spesso gli episodi più casuali, gli errori individuali, i colpi a sorpresa. In sostanza la Roma può vincere o perdere indifferentemente, senza un motivo, senza una spiegazione.
Degli otto successi stagionali, ben tre sono arrivati grazie ai nervi, con Mourinho che aveva mandato in campo tutti (o quasi) gli attaccanti a disposizione nel tentativo di sbloccare o ribaltare il match. Le sconfitte sono state più complesse. Tralasciando gli incredibili passi falsi contro Verona e Genoa, la Roma non ha mai vinto con chi la precede in classifica: pareggi contro Lazio, Atalanta e Fiorentina, sconfitte contro Bologna, Milan, Juventus e Inter. Le disfatte contro le milanesi sono state particolarmente pesanti. Perché i giallorossi hanno risposto alla forza soverchiante dell’avversario con un’impotenza capace di generare tenerezza. Ma questo gioco dove il passato continua a farsi futuro nasconde un malessere più profondo. Belotti, che dopo gli zero gol segnati nello scorso campionato aveva iniziato la stagione con una promettente doppietta al Verona, è stato risucchiato ancora in un gorgo nero. Dybala continua a infortunarsi con sinistra frequenza (contro la Lazio è arrivato il quarto stop muscolare dall’inizio della stagione). Pellegrini dimostra ancora di aver bisogno di un periodo troppo lungo per ritornare in condizione dopo i problemi fisici. E ancora i centrocampisti presi dal Paris Saint-Germain continuano a rivelarsi acquisti ectoplasmatici (l’anno scorso Wijnaldum era stato fuori sei mesi per la rottura della tibia, in questa stagione Renato Sanches si è fermato in continuazione giocando appena 5 spezzoni di partita), i derby continuano a essere decisi al contrario da difensori con il numero 3 sulle spalle (là dove prima c’era Ibanez mercoledì ci ha pensato Huijsen, che però resta un giocatore dal futuro abbacinante). Senza dimenticare le fasce. Ogni anno la Roma acquista un terzino destro da schierare titolare al posto di Karsdorp. Salvo poi accorgersi che Karsdorp resta quello più affidabile. A sinistra, invece, Zalewski continua a rappresentare più un’illusione che una certezza mentre Spinazzola alterna pallidi e fugaci istanti di luce a sconfinati periodi di buio tetro.
La Roma, dunque, resta sempre uguale a se stessa. In pensieri, parole, opere e omissioni. Con i tifosi che sembrano ormai condannati a recitare la parte di Phil Connors interpretato da Bill Murray in "Ricomincio da Capo", dove ogni giorno che nasce non è altro che una copia di quello precedente. La situazione è diventata incresciosa. Molto probabilmente un altro allenatore sarebbe stato già esonerato. Ma per la Roma separarsi da Mourinho vorrebbe dire abdicare, dire addio all’ultima illusione di grandeur. Perché senza montagne di quattrini da investire e senza un allenatore che diceva di venire subito dopo Dio, ingaggiare calciatori di alto profilo sarebbe molto più difficile. Proprio come giocare due finali europee una dopo l’altra. In questo senso la presenza stessa dello Special One è la garanzia della bontà dei progetti societari. E separarsi da Mourinho sottintenderebbe la scelta di un modello di calcio più moderno e sostenibile, ma anche ammettere che difficilmente si potrà ambire a traguardi importanti. Anzi, vorrebbe dire fare economia sui sogni. E forse la Roma non è ancora in grado di permetterselo.