nel deserto saudita
Rebecca Busi e il "mal di Dakar"
La pilota bolognese sta partecipando alla sua terza Dakar: 7.891 km in totale, 4.727 di prove speciali cronometrate. Accanto a lei c’è il copilota Sergio Lafuente
Ognuno ha il suo deserto da attraversare. Terza volta consecutiva di Rebecca Busi alla Dakar. È l’unica italiana a partecipare. L’altra metà (maschia) è niente. Bolognese di nascita, residente a Camugnano, sull’Appennino. 27 anni, la velocità nel dna di famiglia (papà Roberto è stato un pilota di moto, tra il 2006 e il 2017 ha corso diversi rally), colonna sonora di pistoni e mani unte dal grasso di motore fin dall’infanzia, primo regalo una macchinina giocattolo – che era appartenuta alla sorella maggiore – e che il papà rielaborò con targa personalizzata: Reby01. Ci aveva visto lungo. Busi corre nella categoria T4 dei veicoli leggeri Side By Side, su una Maverick Can Am X3 XRS RR, una sorta di litania in forma di codice fiscale che dà forma ai sogni di questa giovane donna in cerca non di guai, ma di sfide. Per partecipare sono serviti più di 200.000 euro. Busi - che ha un contratto con Lamborghini Squadra Corse come istruttrice - ha venduto la macchina, ha organizzato un crowdfunding nell’imminenza della sua laurea in economia (è iscritta a Barcellona, studia da remoto) e qualcosa ha raccolto con la piattaforma Only Fans. Niente alluci in esposizione, ma la presenza in una community di atleti per condividere emozioni, ansie, allenamenti, gare, fatica, sogni. 17.000 i followers, quelli del suo profilo Instagram sono invece 130.000. Si è allenata per settimane, nel deserto di Atacama, in Cile.
Busi ha partecipato la prima volta nel 2022. Tutto è nato per caso, da un annuncio su Facebook. Alla vigilia il navigatore Roberto Musi era rimasto senza pilota, così Busi ha deciso di contattarlo. All’epoca aveva corso una sola volta sul deserto, in Marocco. Le sono bastate un paio d’ore per convincere Musi. Alla partenza era la più giovane delle 20 donne, su un totale di 700 rallysti. Scelse un casco arcobaleno. L’idea le era venuta guardando uno dei suoi idoli, il pilota di Formula 1 Lewis Hamilton che pochi mesi prima - sul finire del 2021 - si era schierato nella battaglia per i diritti Lgbtqi+. Messaggio forte, in un paese dove l’omosessualità è illegale e alle donne è stato permesso di prendere la patente solo nel 2018, dopo ventotto anni di divieto.
L’anno scorso Busi ha avuto come copilota la concittadina Giulia Maroni. Si è ritirata alla 12ª tappa, ne mancavano due alla fine. Ci sono conti in sospeso che vanno risolti. Il sentimento che lega i piloti alla Dakar è come il mal d’Africa: una volta tornati a casa già si inizia a pensare a quando tornarci.
Questa è la 46ª edizione della Dakar. Si corre in Arabia Saudita, otto ore alla guida per due settimane, dune, sabbia, sterrati, svariati i pericoli come – purtroppo – ci racconta la storia di questo rally iconico. Ogni anno però il prezzo da pagare è alto in termini di vite umane. Sono quasi un’ottantina i morti. Nella conta bisogna includere piloti, tecnici, addetti ai lavori, spettatori. Il primo fu il francese Dodin nella storica prima edizione del 1979. Tragica la fine del fondatore della Dakar, il francese Thierry Sabine, precipitato nel 1986 con il suo elicottero a gara in corso; e di due piloti italiani, Giampaolo Marinoni nel 1986 e il bicampione Fabrizio Meoni nel 2005.
Busi è impegnata a consumare 7.891 km in totale, 4.727 di prove speciali cronometrate. Il sipario cala il 19 gennaio a Yanbu, sul Mar Rosso. La carovana: 153 auto e 137 moto, 46 camion e 10 quad, 80 veicoli classici. Accanto a Busi c’è il copilota Sergio Lafuente, che con le sue 15 edizioni è Dakar Legend. Papà Roberto - dakariano pure lui - sarà sulla macchina dell’assistenza. Rebecca Busi non punta a vincere, ma ad arrivare. Che vale pure di più. E sa che nel Rally Raid più famoso al mondo il segreto è uno soltanto: mantenere una velocità di pensiero che sia superiore alla velocità della macchina.