come dopo il triplete
Amici romanisti, detto per esperienza: non sarà facile il lungo addio a Mourinho
Lo Special one aveva portato Roma fuori dal Grande raccordo anulare. Regalando una coppa che mancava da 62 anni. Noi tifosi dell'Inter sappiamo che ora viene la parte più difficile
Bisogna pur dire che prendere una spazzolata dal Milan del sor Pioli è roba da irritare persino degli amerikanos che all’Aesseroma si sono sempre atteggiati più da palazzinari di Pietralata che da businessmen dello sport. Dunque, come all’O. K. Corral, hanno freddato all’alba il loro ormai odiato Doc Holliday Mourinho: l’unico medico che nella loro gestione sia stato in grado di riaccendere l’entusiasmo dei tifosi. José Mário dos Santos Mourinho Félix è uomo di mondo, e aveva appena detto di non essere Harry Potter: perché non è un pirla. Infatti subito dopo l’alba è arrivata l’orda di quelli che non vedevano l’ora di dargli di pirla, dopo essere stati per anni presi a schiaffoni da Mou. La “prostituzione intellettuale” brucia ancora sulla pelle come una lettera scarlatta. Gli unici autorizzati a soffrire sono i tifosi che lo hanno adorato e santificato e che ancora oggi a Trigoria gli gridavano “Tirana è per sempre”, che forse è un po’ troppo anche a essere della Roma. Gli altri, tutti a parlare del “fallimento”. Il filosofo di Setúbal disse una volta che “chi capisce solo di calcio non capisce di calcio”, e per parlare di fallimento in effetti bisogna non capire neanche di calcio. Certo, lascia la Roma al nono posto, ma tre settimane fa pure il Bologna sembrava squadra da Champions. Meglio constatare che da oggi tutti parlano del suo esonero. Dell’addio di Spalletti e di Garcia cacciato ha fottuto sega solo a Napoli. Invece Mou va, ma resta la sua pazzesca diversità, culturale prima ancora che mediatica e sportiva.
Ora verrebbe naturale e quasi doveroso spiegare ai romanisti che cosa sarà, e come dovrà lentamente essere elaborata, la solitudine degli orfani di Mourinho. Possiamo dirlo noi, che dopo il volo stellare ci ritrovammo con quel panzone antiempatico di Benítez. Lo stellone di Mou può declinare, panta rei, ma sostituirlo non è come scartare una caramella. Allo United dopo lui arrivò Solskjaer e al Tottenham Nuno Espírito Santo, per dire. Restare senza quel talismano, capace di intestarsi tutte le battaglie, specialmente quelle perse e per difendere la sua squadra sarà dura, amici romanisti. Con lui è sempre stato più che il calcio, più che la città. I volenterosi profeti del calcio “contemporaneo” ora sventolano i loro cahiers. Un minimo di metodo falsificazionista obbliga, ovvio, a considerare che negli ultimi cinque incarichi è stato esonerato quattro volte. E forse come dice Bruno Longhi, vecchio saggio, è vero che con lui alla fine ha perso il “suo calcio antico”; magari anche per colpa dei rigori “moderni” (aggettivo perfetto: e ha detto molto di più di tutti gli avventori da Var). Il falsificazionismo applicato alla prostituzione intellettuale consente invece di dire che al ManU vinse l’Europa League con una squadra di brocchi e un club di sbandati che non s’è mai ripreso.
A Roma ha fatto due finali, le uniche in 32 anni, e una coppa l’ha vinta: l’unica da 62. Ha fatto errori, il suo calcio non è spumeggiante ma è mentale, ha bisogno di “allenare neuroni” e gli amerikanos non gli hanno fornito molta intelligenza artificiale. Ma sono storie attorno a una birra che gli orfani elencheranno nel lungo addio. Mourinho se ne va, ma ha fatto un grande lavoro per portare la Roma, e Roma, fuori da una dimensione provinciale. Ora si fa l’in bocca al lupo a capitan De Rossi e ai romanisti, a patto che non buttino tutto e che l’Aesseroma non torni tristemente nel recinto del Grande raccordo anulare, che circonda la capitale (cit).