Il Foglio sportivo
De Rossi parafulmine in panchina
In Curva Sud l'ex centrocampista giallorosso troverà solo amore, ma i rischi alla Roma sono altissimi
In un mondo che ha scelto di rinunciare al sentimento, che sacrifica potenziali bandiere sull’altare delle plusvalenze, il calcio italiano accoglie con gli squilli di tromba del caso il ritorno in giallorosso di Daniele De Rossi. La veste non è più quella del centrocampista, è vero, eppure in questo nuovo approdo a casa nei panni di allenatore chiamato al capezzale di una Roma nervosa e sgangherata, a tratti orribile da veder giocare eppure ancora lì, aggrappata all’obiettivo del quarto posto, c’è qualcosa che stona. L’impressione che se ne ha, sin dal primo impatto, è di qualcosa di posticcio. Non l’amore di De Rossi per la Roma, ovviamente, ragione suprema per la quale ha scelto di farsi carico di qualcosa che rischia di essere più grande di lui, anche se tutti quelli che lo hanno conosciuto giurano che sia pronto per compiere enormi imprese. A sembrare artefatta, invece, è la purezza della scelta dei Friedkin, che hanno deciso, con basi più che solide, di porre fine all’era Mourinho con un comunicato spuntato dal nulla di prima mattina, come un caffè che ti si rovescia sulle ginocchia lasciandoti di malumore per tutta la giornata. Sin dal momento dell’ufficialità, è parso a tutti che ci fosse un nome, uno solo, capace di non disperdere tutto ciò che di buono il portoghese aveva creato, oltre la Conference League vinta, oltre la finale di Europa League persa in un modo che ancora offende i tifosi giallorossi, e non certo per la prestazione di Dybala e compagni. Quel nome era Daniele De Rossi e il patrimonio da salvare era la Roma stessa, intesa come incrocio di persone, come luogo dell’anima.
La Roma dei mille sold out consecutivi, del pubblico che si fa dodicesimo uomo in campo nelle notti più complicate vissute all’Olimpico e nelle porzioni di stadio riservate in trasferta. La Roma che sbuffa, ma non molla, che agguanta partite quando sembrano perse soltanto per la forza della sua gente. Per sbattere la porta in faccia a un Mourinho che stava diventando più ingombrante della Roma stessa, con le sue tirate contro nemici ormai invisibili al solo scopo di proteggere il brand personale, non poteva esserci che un rifugio emotivamente sicuro: qualsiasi allenatore normale, anche il più bravo, avrebbe rischiato di finire fagocitato. E così, mentre il pubblico rumoreggiava, qualcuno addirittura implorando il vecchio capitano di non accettare, di non prendersi un rischio così grande, De Rossi ha raccolto questa chiamata alle armi anche a costo di scottarsi. I Friedkin sapevano che non avrebbe mai potuto dire di no e non hanno tenuto conto della sua storia nel tentativo di salvaguardarla: hanno anzi scelto di usarla come parafulmine. In panchina andrà un uomo dalle spalle larghe, ma da un vissuto da allenatore inevitabilmente breve, che dovrà imparare in corsa, anche sbagliando. Tempo per sbagliare, però, ce ne è poco: se la salita verso la zona Champions non è particolarmente ripida e il calendario sorride al nuovo tecnico, va detto che ci sono molti avversari sul cammino.
All’orizzonte, anche un playoff di Europa League scomodo. Non ha nemmeno tempo per pensarci, De Rossi. Si bagnerà in un fiume che conosce a memoria, attraverserà un tunnel che ha percorso mille volte. Poi guarderà alla sua destra, verso la Sud, cercando casa, facce amiche, cuori pulsanti. Troverà, in risposta, quell’amore che ha il compito di non disperdere e anche, sotto sotto, un filo di paura. Perché se a perdere una partita da allenatore è uno che davvero veste i tuoi stessi colori, può fare più male.