Il Foglio sportivo - l'intervista
Gentile soltanto di nome. Intervista a Claudio Gentile
“Mi hanno fatto fuori. I procuratori hanno rovinato il calcio italiano”. Parla l'ex difensore della Juve e della Nazionale, poi ct dell'Under 21 bronzo olimpico
"Sono rimasto a Tripoli fino a otto anni. Di quel periodo, legato alla mia infanzia, ricordo le partite con i bambini arabi, che erano infuocate. Giocavamo su un campetto dell’oratorio dopo la scuola. Credo che il difensore roccioso che sarei diventato, sia nato in quelle battaglie senza esclusioni di colpi. Perché, a dispetto della tenera età di tutti i contendenti, ricordo più mazzate che calci al pallone”.
Suo padre capì anzitempo che aria tirava e tornaste in Italia, prima che la situazione precipitasse…
“Non aspettammo, come tanti altri, che Gheddafi cacciasse dalla Libia tutti gli italiani. Traslocammo a Brunate, un piccolissimo comune, collegato a Como da una funicolare, che d’estate si riempiva di milanesi con tanti soldi. Ricordo che in quei mesi di piena, aiutavo la mia famiglia recapitando frutta e verdura a domicilio. Non avevo neppure quindici anni. Fra una consegna e l’altra, feci un provino con il Como e mi presero seduta stante, ma non volevano pagarmi le corse della funicolare e lasciai perdere”.
Quella funicolare negata fu, in un certo senso, la fortuna di Claudio Gentile, uno dei più forti difensori della storia. Un cavaliere senza macchia, che ha vinto tutto il possibile, prima di perdersi nei meandri oscuri delle regole del gioco, a cui lui non si è mai piegato o, quantomeno adattato…
“Obtorto collo andai a giocare a Maslianico, un paesino ai confini con la Svizzera, appena più grande di Brunate. Dopo un anno che stavo lì, feci un provino per il Varese, che aveva per presidente un personaggio carismatico come Giovanni Borghi. Dopo tre anni trascorsi nel settore giovanile, mi diedero in prestito all’Arona, che a quel tempo militava in Serie D. Durante il periodo della preparazione estiva, il Cagliari venne a giocare un’amichevole contro di noi. Mi diedero da marcare uno che si chiamava niente po’ po’ di meno che Gigi Riva. Subito dopo la partita Rombo di tuono, come veniva chiamato, andò dal presidente del Cagliari Andrea Arrica e lo invitò ad acquistarmi, con un tono che non ammetteva repliche, qualunque fosse il prezzo di vendita. Arrica firmò seduta stante un assegno in bianco, ma io ero del Varese e all’Arona ero solo in prestito e, quindi, non se ne fece niente. Tornai a Varese e mi feci largo come uno dei giovani più promettenti della Serie B e poi, per un destino che assecondava alla lettera i miei sogni di bambino, fu Juventus per sempre”.
Un’epopea indimenticabile. Undici stagioni, sei scudetti, due Coppe nazionali, due Coppe delle Coppe e una Uefa…
“Alla Juventus ho vinto tutto, meno la Coppa dei Campioni, malauguratamente persa in finale ad Atene. Io avevo sempre tifato per la Juve e andarci a giocare e vincere tutto quello che abbiamo vinto è stato come un brivido d’amore che ti entra dentro e non ti lascia più. Sono arrivato a Villar Perosa e sono stato accolto come se fossi da sempre uno di loro. Avevo diciannove anni e in tanti avevamo pronosticato per me più panchine che partite. Misi in fila, invece, già al primo anno, sedici presenze e l’anno dopo ero già un titolare”.
A quali calciatori di quella Juve, era più legato?
“Erano Gaetano Scirea, Marco Tardelli e Antonio Cabrini. Eravamo giovani e avevamo, più o meno, la stessa età. Eravamo molto uniti e insieme abbiamo scalato, partita dopo partita, gerarchie che sembravano consolidate. Alla Juve c’erano tanti campioni. Oggi molti hanno in mente quella difesa che aveva come capisaldi, oltre a Dino Zoff, Scirea, Cabrini e me, ma prima di noi c’erano stati grandi difensori e non era scontato che riuscissimo a soppiantarli”.
Quella Juventus era allenata da quello che lei ha definito il numero uno, il maestro dei maestri. Il maestro di tutti: Giovanni Trapattoni…
“Trapattoni era capace di tutto. Basti pensare che dalla fascia destra mi spostò a quella opposta. Il più bel campionato nella Juve l’ho fatto da terzino sinistro e tornai a destra solo perché c’era da fare spazio a Cabrini. Ricordo ancora, come se fosse ieri, il Trap, che mi tratteneva in campo, quando per gli altri l’allenamento era già finito, e mi lanciava il pallone da centrocampo e io doverlo bloccarlo in corsa e metterlo in mezzo all’area. Era un insegnante di calcio e di vita. Sapeva leggere le partite e scegliere i giocatori giusti. È stato un grande maestro”.
Qual è stato il tuo giorno più bello alla Juventus?
“Il primo scudetto: diventare campione d’Italia, con la tua squadra del cuore. Ho vinto altri scudetti, coppe, un campionato del mondo, ho vinto da allenatore, ma il primo scudetto è come il primo amore. Non si scorda mai”.
Lei sapeva solo vincere. La sua vittoria più bella è stata sicuramente quella dei Mondiali del 1982 con l’Italia…
“Prima di partire eravamo stati massacrati dalla stampa. Le critiche erano state feroci. Dicevano che era assurdo aver lasciato a casa Roberto Pruzzo ed Evaristo Beccalossi. A giudizio generale, non avevamo i crismi di una vera Nazionale. Saremmo tornati a casa dopo il primo giro di corsa. E, invece, quella nazionale è entrata nel cuore degli italiani dopo aver sconfitto l’intera storia del calcio: Argentina, Brasile e Germania”.
L’inizio però, era sembrato dare ragione ai detrattori. Tre pareggi e una qualificazione ottenuta per il rotto della cuffia…
“Avevamo fatto una preparazione pesante, c’era tanto acido lattico nelle gambe e facevamo fatica a scattare. Poi, le energie sono tornate e abbiamo messo sotto, una dopo l’altra, le squadre più forti del mondo”.
Tutto si può dire, meno che siete arrivati fino in fondo per fortuna, evitando le squadre scomode…
“La finale designata era Brasile-Argentina. Noi eravamo di fronte a un bivio. O si cominciava a vincere o si andava a casa. La squadra si è compattata. Fu una sequenza incredibile. La grande vittoria contro l’Argentina sarebbe stata in qualche modo vanificata, se subito dopo non avessimo battuto anche la Nazionale carioca. Fare tre gol al Brasile, uno dei più forti della storia, in cui giocavano oltre a Zico, fuoriclasse del calibro di Socrates e Falcao, fu un’impresa quasi epica. E poi ci fu la ciliegina sulla torta, quella finale vinta contro la Germania. L’urlo liberatorio del mio amico Tardelli, dopo il suo secondo gol, che sancì in modo irreversibile la conquista del titolo, non lo potrò mai dimenticare. Eravamo un gruppo fantastico. Quelli che restavano fuori dagli undici titolari erano i primi tifosi e davano la carica a chi giocava. Bearzot era il grande condottiero, ma ad andare in campo e trovare dentro di sé ogni recondita energia erano gli allievi. Erano i componenti di quella rosa fantastica”
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Esaltante è stato anche il suo cammino come allenatore della Nazionale Under 21. Campione d’Europa nel 2004 e bronzo olimpico nello stesso anno. Poi, però, le diedero, senza pensarci troppo, il benservito…
“Sono l’unico allenatore vivente ad aver vinto una medaglia olimpica, dopo l’oro conquistato da Vittorio Pozzo a Berlino nel 1936. Quella Nazionale, che segnava più gol e ne prendeva meno di tutte le altre, avrebbe dato alla Nazionale di Marcello Lippi sei giocatori: De Rossi, Gilardino, Amelia, Iaquinta, Zaccardo e Barzagli”.
Come ringraziamento, la cacciarono…
“La mia vita è cambiata nello spazio di tre giorni. La Figc era stata commissariata. Il giorno della presentazione di Guido Rossi io ero l’allenatore designato della Nazionale maggiore. Il giorno successivo era ancora l’allenatore dell’Under 21 e quello dopo non ero più nulla. Fuori dai giochi. Fuori da ogni corsa. Per sempre”.
A distanza di tanti anni, si è dato una spiegazione?
“Oggi l’Under 21 l’allena chiunque e non vince mai niente. Quello che è successo a me è una cosa grossa. Uno che ha ottenuto i miei stessi risultati, o qualcosa di simile, non l’hanno mai più trovato. Credo di non essere stato scalzato dalla Federazione, ma da qualcuno più in alto, dei poteri forti che agiscono e si muovono al di sopra del calcio. Mi hanno fatto fuori. Senza mai darmi uno straccio di spiegazione. A qualcuno non sarà piaciuto che non convocavo i raccomandati, ma solo i più meritevoli. Era una sollecitazione continua. I procuratori e le società mi chiedevano conto del perché non chiamassi questo o quello. Io andavo avanti, senza compromessi, per la mia strada. Non sono uno che abbassa la testa. Non mi sono rifiutato di marcare Maradona e Zico, nonostante non toccasse a me. Non erano ale sinistre e non rientravano, quindi, nella mia zona di competenza. Figuriamoci se abbassavo la testa di fronte a diktat più o meno mascherati”.
Una cosa è certa. Con i procuratori non ha mai avuto un grande feeling…
“Io non mai avuto un mio procuratore”.
Una scelta che ha pagato?
“L’ho pagata sicuramente. Mi offrivano anche dei soldi, e non erano noccioline. Io dicevo no. Io non convoco i raccomandati, ma chi lo merita. I risultati erano dalla mia parte, ma non sono bastati”.
In tutta sincerità, che cosa pensa dell’avvento dei procuratori e del ruolo che esercitano nel calcio del terzo millennio?
“L’ho già detto e lo ripeto qui. Non mi pento e non mi rimangio le parole. Non mi tiro indietro. I procuratori hanno rovinato il calcio italiano. Sì, decidono anche chi deve scendere in campo. Oggi, se sei protetto da quelli potenti, giochi anche se sei più scarso di un altro”.
I procuratori l’hanno invitata a non restare sul vago e a fare i nomi…
“Io i nomi non li faccio perché me lo chiedono loro. Io i nomi li farò, se e quando sarò chiamato in tribunale a rendere conto delle mie parole. Mi facciano una denuncia e farò tutti i nomi, uno a uno. Non cado nel tranello. Perché in tutti questi diciassette anni non mi hanno mai denunciato?”.
Ad allenare una Nazionale ha rinunciato per sempre?
“Troppo acqua è passata sotto i ponti. Troppi torti. Troppe delusioni. Pensi che durante i Mondiali del 2006 mi aveva cercato la Juventus, la mia squadra del cuore, con cui avevo vinto scudetti e trofei. Chiamai Demetrio Albertini e lo avvisai di questa mia opportunità. Mi invitarono a soprassedere, perché avevano grandi progetti per me. La Juve andò, a quel punto, su un’altra pista e io rimasi beffardamente inchiodato al palo, senza una panchina”.
Al di là dei procuratori, le piace il calcio di oggi?
“No, perché non è più il calcio che ho amato io e che abbiamo visto nel corso degli anni. Non è una questione di romanticismo. La verità è che non mi entusiasmo più quando vedo una partita. Mi dispiace dirlo. Non vorrei scagliare pietre contro un mondo che è stato il mio. Troppe cose non capisco. Se gli otto undicesimi dei club italiani sono stranieri, come si può costruire una Nazionale che possa ambire a rivincere un campionato del mondo?”.
A proposito, che fine ha fatto la grande scuola dei difensori italiani, che tutto il mondo ci invidiava?
“I grandi difensori non ci sono più. Sono un genere estinto. Quando vedo certi gol, con il difensore staccato di un metro, e anche di più, dall’attaccante che dovrebbe marcare, mi girano le balle e spengo il televisore. Una volta non regalavi un centimetro a nessuno e non tiravi mai indietro né la gamba, né la testa”.
Lei sogna ancora di rientrare nel giro?
“Quello che sogno io non conta più niente da tempo. Non mi farebbero mai rientrare. È diventato un mondo che non fa per me. Le sembra plausibile che io mi metta a discutere con i procuratori su chi debba giocare. Non sto dicendo chissà che, ma la pura verità. Ho ricevuto tante proposte dall’estero, ma nessuna, dico nessuna, da una squadra italiana, neppure di Serie B. Questo vuol dire che non mi ha fatto fuori solo la Federazione, ma tutto il sistema calcio italiano. Ci sono allenatori che, dopo quattro esoneri consecutivi, tornano magicamente ad allenare in serie A. Per me, mi creda, non c’è posto. Sono passato direttamente dalla gloria al capolinea. Forse sarebbe bastato avere un procuratore per invertire la rotta ed evitare il naufragio”.
Le capita ancora di sognare qualche partita memorabile?
“Sì. Quelle partite del Mondiale del 1982 le sogno spesso. Capita, però, che mi svegli poi di soprassalto, perché nel sogno la partita ha uno sviluppo diverso e meno entusiasmante di quello reale. Sogno Zico che sfugge alla mia marcatura e la butta dentro. Aprire gli occhi e riprendere contatto con quello che è accaduto sul campo è una sensazione meravigliosa, il calcio mi ha dato tanto. Tutto. Anche se il film è finito troppo presto. Non per colpa mia”.