La supercoppa
Mica male la coppetta. Moralismi e stupidate sul calcio giocato a Riad
Un sistema calcio debole e un soft power che invece va potenziato. Un modello da migliorare
Esistono due ottime ragioni che sconsiglierebbero vivamente di scrivere, tanto più dovendolo fare a cavallo tra la prima e la seconda partita, della Supercoppa per pochi intimi che quattro squadre italiane stanno disputando nel deserto saudita. La prima è piattamente scaramantica, dacché da quella coppetta rischiano di tracimare soltanto dei guai. La seconda, più sistemica, è la salutare cautela di tenersi alla larga dalla inutile gnagnera d’accatto di chi si lamenta (anzi sono molto più quelli che gioiscono: tanto c’è il governo delle destre, no?) per la figura invero barbina di quello stadio vuoto, ma così vuoto e desolato come neanche il Parlamento quando discute temi wannabe cruciali e in Aula resta solo la Camusso. Poi tocca schivare, è anche peggio, quelli che alzano il sopracciglio, massimo sforzo, perché da quelle parti saudite non rispettano i diritti umani. Peccato che spesso chi lo dice nella vita reale sostenga partiti che non votano l’invio di armi per aiutare l’Ucraina a difenderli, i diritti umani. Più ipocriti del Var. Ma esiste un tema più importante, che ha a che fare con la pazza idea di spostare quattro squadre a Riad a metà gennaio. Ed è che la pazza idea in fondo è una buona idea.
Bisogna dunque sfidare le varie tipologie di gnagnera e dire che andare a giocare tornei di Lega nazionale in nazioni lontane (non lo si era fatto anche in Cina, in Qatar e persino nell’esotico New Jersey?) e provare così un possibile allargamento del business del calcio non è una cattiva idea. Soprattutto non è una cattiva idea, invece di stare a menarsela col sovranismo alimentare e l’egemonia gramsciana, provare a esercitare nel mondo un po’ di quel soft power, di quell’arte di mostrarsi e di convincere, che passa anche attraverso lo sport e fa bene all’economia. E il calcio, da questo punto di vista, è il re degli sport per attrattività.
Per lasciarlo dire meglio a Marco Bellinazzo, giornalista del Sole 24 ore e esperto di business e football: “Non c’è dubbio che gli spalti vuoti di Napoli-Fiorentina sono stati “un passo falso”, ha scritto in un post, ma “resto convinto che per internazionalizzare i brand del nostro calcio e supportare la presenza di aziende italiane in quest’area la possibilità di giocare qui vada coltivata senza remore”. Del resto industrie-calcio che stanno molto meglio di noi, come la Liga spagnola, hanno sperimentato per prime il modello delle Final Four. E’ un modello che va perfezionato, certo, bisogna creare appeal attorno alle squadre (ma ad esempio giovedì a Riad hanno dato forfait molti tifosi africani, sembra, perché non ci sarebbe stato Osimhen), e per creare squadre con appeal serve bel gioco e bravi giocatori. “Si può far finta di nulla oppure seminare faticosamente per il futuro”, conclude Bellinazzo, tenendo insieme sia il tema del calcio che quello del soft power in un’area del mondo che sarà sempre più cruciale.
Il punto, tralasciate le stupidaggini e i giochetti moralisti, è molto semplice: non puoi essere contemporaneamente contro la Superlega (lo si può essere), ma contemporaneamente anche contro le troppe partite imposte dai nuovi tornei Uefa, ed essere pure contro il tentativo di allargare il bacino di utenza verso mercati come l’Arabia (en passant: è meglio tentare di tenere agganciata l’Arabia Saudita all’universo occidentale, o ricacciarla nelle guerre di religione e geopolitiche con la Turchia o l’Iran?).
L’alternativa a sperimentare modelli di spettacolo globali è il panesalamismo, la nostalgia ipocrita di quelli che, pur vivendo nel calcio e di calcio, puntano il dito contro i soldi. Lo lasceremo dire all’insospettabile Napolista: “Gli stipendiati del calcio ricordano i familiari di Alberto Sordi. Maurizio Sarri si diverte sempre a giocare al comunista controcorrente facendo finta di non sapere quale sia il sistema che gli consente di guadagnare stipendi impensabili quando era impiegato di banca, lo stesso Walter Mazzarri che mostra di ignorare i motivi che hanno indotto la Lega Serie A ad allargare la Supercoppa a quattro squadre”. E “gli stessi tifosi che contestano la scelta di giocare in Arabia, poi alzano la voce se i loro club non si indebitano in sede di mercato”. Certo, gli osservatori informati già vedono che la grande guerra lampo dei sauditi per conquistare il calcio sta perdendo colpi: dal rinvio dei Mondiali al 2036 ai mal di pancia per indigestione di noia dei vecchi dinosauri alla Benzema che avevano accettato il dorato esilio nel deserto. Ma per il momento fanno testo i 23 milioni incassati per la simpatica kermesse dopolavoristica di Riad, e per società che boccheggiano non è male. Finché i nostri club non si saranno trasformati nel modello funzionante del calcio inglese o tedesco, piagnucolare sulle brutte figure all’estero è inutile. Certo, visto che la Lega (forse sciaguratamente) ha già firmato il contratto per altre sei finali da giocare in Arabia, si può e si deve fare molto meglio: il calcio italiano non può sopravvivere a lungo a queste passerelle squallide. Bisogna lavorare e molto, se non scapperanno anche gli sponsor. Del resto la famosa egemonia gramscian-calcistica italiana è quella di due Mondiali di fila visti dal divano. E allora, quale sarebbe in dramma di vedersi anche la Supercoppetta, da un comodo divano pagato dagli arabi?
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