Il Foglio sportivo
Pietro Sighel, il nuovo signore del ghiaccio
“Non godo abbastanza delle mie vittorie perché penso subito alla gara successiva”, ci dice il campione europeo nei 500, nei 1.000 e nei 1.500 metri: tripletta mai riuscita a nessun altro prima di lui
Tra meno di un mese, il 16 febbraio, ricorrerà il ventiduesimo anniversario dell’oro olimpico più assurdo della storia. Come ogni anno, Pietro Sighel riguarderà sui social il video della goffa vittoria nei 1.000 metri di short track a Salt Lake City 2002 dell’australiano Steven Bradbury, campione perché troppo lontano per essere invischiato nelle bagarre costate cadute e squalifiche a tutti i fenomeni che lo precedevano. La riguarderà con il commento pungente e ormai iconico della Gialappa’s Band. E riderà, come tutte le volte. “Mi diverte sempre, ma io non vorrei mai vincere così. Io voglio vincere perché sono stato più veloce dei miei avversari, perché ho adottato la tattica giusta. Perché sono stato il più forte in quel momento”. Qui e ora, come in tutti i manuali di mindfulness. Come quando parte come un razzo sull’ovale da 111 metri e piega in curva più di Pecco Bagnaia con la Ducati Desmosedici, ma senza pneumatici, solo su una lama spessa un millimetro o giù di lì. Come ha fatto per tre volte lo scorso fine settimana a Danzica: oro europeo nei 500, nei 1.000 e nei 1.500 metri. Tripletta mai riuscita a nessun altro prima di lui.
“Sarei un bugiardo se dicessi che non mi inorgoglisce – racconta – ma noi atleti forse non riusciamo a godere fino in fondo dei nostri successi”. E così, il qui e ora diventa qui, ora e domani: “Per noi è normale dare tutto in una gara, è normale provare a vincerla e, quando ci riesci, hai già la testa alla successiva. Forse godo più dei successi degli atleti per cui faccio il tifo. Mi sono entusiasmato per Marcell Jacobs a Tokyo, per esempio”. Sighel, 24 anni da Trento, nipote di nonno Mario, tra i precursori del movimento del pattinaggio di velocità nazionale, figlio di Roberto, campione del mondo su pista lunga a Calgary nel 1992 e primo italiano iridato nella disciplina, fratello minore di Arianna, come lui in Nazionale di short track. “A differenza di papà, ho scelto la pista corta perché i risultati mi hanno portato qui. E anche perché so che passare un giorno dallo short track alla pista lunga è possibile, il contrario no: ci vuole una confidenza, una sensibilità e anche un pizzico di incoscienza per piegare così in curva che, una volta persa, non recuperi più”.
Con Milano-Cortina 2026 nel mirino, il giovane trentino ha già vinto più di tutti i suoi parenti messi insieme: argento olimpico a Pechino 2022 con Arianna Fontana nella staffetta mista, bronzo con quella maschile; un oro, due argenti e quattro bronzi mondiali, più quattro ori, quattro argenti e un bronzo europeo. E tanta voglia di cancellare lo zero in quell’unica casella a cinque cerchi che manca. “È un sogno gigantesco. L’Olimpiade in sé è qualcosa di incredibilmente magico, l’Olimpiade in casa deve essere ancora più grande. Faccio fatica a immaginarla, ma sono orgoglioso di come ho gestito la pressione olimpica a Pechino e voglio far bene”.
L’orizzonte temporale è fissato a Francia 2030, poi si vedrà: “Non riesco proprio a vedere oltre. Voglio far bene in questi due cicli olimpici e poi chissà”. Il qui e ora, d’altronde, non gli permette di scappare troppo in avanti con la fantasia. Ma vale la consapevolezza che, dopo Arianna Fontana, oggi è lui a portare in alto la bandiera dello short track italiano. “Lavoro ogni giorno per ritagliarmi il mio spazio tra i più grandi. So dove sono arrivato e sono consapevole di poter crescere ancora. A livello fisico, per esempio. Ho bisogno di spingere ancora di più in palestra per fare un altro passo”.
E portare avanti un percorso cominciato quando aveva appena tre anni. “La prima immagine che mi viene in mente è di me sul lago ghiacciato con un paio di pattini ai piedi. È stato amore a prima vista e, quando sono cominciate le gare, non c’è stato più modo e voglia di tornare indietro”. E allora addio al sogno di diventare avvocato. “Forse in un’altra vita – scherza – anche perché, per quanto mi sarebbe piaciuto, avrei finito per prendere tutte le cause sul personale. E non va bene”. Competitivo fino al midollo, insomma, e molto riconoscente alla famiglia che l’ha accompagnato su questa strada: “Crescere con persone che ti danno l’esempio e ti indicano la via è una fortuna incredibile per la quale sarò sempre riconoscente”. Una fortuna coltivata con impegno e lavoro quotidiano e irrorata da una passione viscerale per lo sport: “Adoro i motori, dalla Formula 1 alla MotoGp, ma mi piacciono tanto anche il ciclismo (la bici è anche una parte fondamentale del suo allenamento, ndr) e lo sci alpino. La passione vera, però, è il mio lavoro: è lo sport a cui ho dedicato una vita e che mi riempie di gioia ogni giorno”. E di successi, inclusi quelli che verranno.
Il Foglio sportivo