1944-2024
È morto Gigi Riva
Arrivò a Cagliari nel 1963, in Serie B. Con la maglia del Cagliari giocò tutta la carriera, vincendo uno scudetto
Gigi Riva aveva iniziato a diventare uomo in una fabbrica che produceva ascensori. Fu lì, diceva, di aver capito che lavorare è fatica e che se un giorno la sua abilità di giocare a calcio gli avesse permesso di fare il calciatore invece che l’operaio avrebbe dato tutto se stesso per non tornare in fabbrica. Gigi Riva divenne calciatore con la maglia lilla del Legnano, poi venne mandato in Sardegna, al Cagliari, in quella che all’epoca era più una punizione che un’opportunità. Finì che non se ne andò mai più e che quella punizione non si trasformò solo in un’opportunità ma “nella migliore cosa che mi è capitata in carriera”. A Cagliari, diceva Gigi Riva, che c’avrebbe vissuto per sempre e che quando doveva essere il momento gli sarebbe piaciuto morire lì, in quella terra “che non era sua, ma che sentiva sua”. Gigi Riva è morto a Cagliari, in quella città che lo accolse e lo amò in modo viscerale, ripagata. E non solo per una di quelle cose che accadono solo una volta nella vita, lo scudetto del Cagliari. Perché non sono le vittorie a contare in fondo, è che qui “io mi sento loro e loro si sentono me, come non ci fosse distanza”.
Gigi Riva era nato Luigi Riva, Gigi lo divenne quasi subito, per amici e familiari, Gigiriva non appena indossò la maglia rossoblù del Cagliari. Rombo di tuono arrivò più tardi, grazie a Gianni Brera, che già di gol ne aveva segnati tanti e che il Cagliari, anche grazie a lui, si era trasformato in avversario più che scomodo.
Gigiriva faceva il centravanti e non solo il centravanti, era soprattutto qualcuno a cui appigliarsi, perché quando andavano male le cose, i compagni calciavano lungo verso di lui e lui in qualche modo riusciva a ripagare tanta fiducia.
L'antropologo e scrittore Giulio Angioni diceva che Gigiriva era l'evoluzione di certe credenze animiste ancora diffuse negli anni Sessanta in Barbagia, "era incarnazione della vita che abbatteva la morte nel fuoco e nello scoppio", era soprattutto l'evidenza che "l'anima di questa terra aveva trovato un corpo per esprimere ancora la vitalità nella sofferenza, la vita nella rinascita marzolina dopo la morte apparente invernale". Gigiriva era forte e come ogni calciatore forti in campo era inseguito e picchiato. Subì diversi infortuni, si riprese da quasi tutti, tranne l'ultimo: quello del primo febbraio 1976 quando un contrasto col difensore del Milan Aldo Bet gli costò un grave strappo muscolare all'adduttore della coscia destra.
Gigiriva segnava come nessuno all'epoca e non solo per numeri (anche se in Nazionale ancora nessuno ha fatto meglio di lui) o per qualità delle giocate. Segnava come nessuno all'epoca perché nessuno all'epoca segnava per una convinzione "ostinata e contraria" come lui. Fabrizio De André disse che Gigiriva era un sogno tra l'autarchico e il reazionario, l'idea che una squadra che nulla aveva mai ambito nel calcio, almeno fino agli anni Sessanta, potesse credere e lottare per lo scudetto. Il 1968 a Cagliari arrivò in ritardo, lo portarono due uomini miti e pedemontani come Manlio Scopigno e Luigi Riva, per tutti una parola sola, Gigiriva, per tutti due colori solo: il rosso e il blu (ogni tanto stinto in Azzurro quando era prestato alla Nazionale).