Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA
Daniele De Rossi e il calcio di Narciso
Se nel pallone esistessero solo le parole, il nuovo Ct della Roma avrebbe già vinto uno scudetto: "Non amo quelli che dicono: il mio calcio" ha detto in una delle sue prime dichiarazioni. Applausi, perché il calcio tecnico, alla fine, non esiste
Se nel calcio esistessero solo le parole, Daniele De Rossi avrebbe già vinto uno scudetto. Nei suoi primi discorsi ha dichiarato se stesso, senza rinnegare mai la sua passione per Roma e per la Roma, aggiungendo però sale allo zucchero. Tra i pensieri espressi dal romano, ne scelgo uno su tutti: “Non amo quelli che dicono: il mio calcio”. Applausi a scena aperta, e finalmente. Molti allenatori si prendono esageratamente sul serio, rivendicando le vittorie come se fossero un fatto personale, il frutto di una propria scienza applicata al gioco. Il calcio di uno non esiste, ma semmai ci sono i molti modi di intenderlo o rielaborarlo, applicando variazioni sul tema principale: possesso, attacco, difesa, transizione (tranqui, esco subito da Coverciano). Un allenatore che parla del “suo calcio”, è un uomo a cui manca il senso della misura, sovrastimando se stesso (cosa che capita sovente a molti, me compreso), perdendo di vista la sua funzione principale: allenare. Durante la partita, la squadra mette in pratica gli allenamenti, applicando i principi di gioco pensati dall’allenatore (i famosi schemi esistono solo quando la palla è ferma). Questa è la base, questa è la firma di ogni allenatore.
Poi ci sono i giocatori che creano dal nulla, seguendo l’istinto, una creatività agnostica, priva di alcuna risposta alla domanda: perché l’hai fatto? Ecco, capita che tanti allenatori si approprino di quella risposta, attribuendosi la paternità del gesto. Quante volte ho ascoltato racconti di insubordinazione da parte di molti giocatori che si ribellavano alle disposizioni “superiori”, organizzando un party a centrocampo dove l’allenatore veniva di fatto escluso da ogni operazione, in quanto inadeguato. “Il calcio è facile lo sanno dire tutti”, sostenne Spalletti in una notte di mezza estate. Io avrei cambiato un verbo e messo al negativo tutta la frase, modificandola così: “Il calcio facile non lo sanno fare tutti”. Perché tra il dire e il fare c’è di mezzo un mare di chiacchiere. Tutte giuste, tutte sbagliate.
Il calcio teorico non esiste, lo abbiamo inventato noi giornalisti per tirare a campare. E non a caso, quando un allenatore si trova a spiegare a parole quello che vorrebbe dalla sua squadra, sentiamo ripetere sempre le stesse cose, con concetti elementari. Un allenatore deve poter disporre di calciatori forti tecnicamente, moralmente e fisicamente. A lui il compito fondamentale di rispettare le caratteristiche di ognuno, costruendo su questo semplice architrave ogni modalità di gioco. Il resto è sopportazione della critica, fatica e fortuna. Un bravo allenatore è quello che sbaglia meno degli altri e si fida dell’istinto, guidando un gruppo con carisma. Un calcio che se non è di tutti, di certo non è solo di uno. A meno che quell’uno non sia un parente di Narciso, il giovane affogato nello stagno dove era caduto per essersi specchiato.