Crocicchi #22
La Serie A ha paura di tirare i calci di rigore
Cinque penalty sbagliati nell'ultima giornata di Serie A, diciannove da inizio campionato su novanta tirati. E mentre l'Inter ritorna capolista, l'Hellas Verona regge nonostante la proprietà abbia venduto mezza squadra. Che succede a Sassuolo?
A vedersi assegnato un rigore a favore, nel fine settimana di Serie A appena concluso, era da fare gli scongiuri anziché esultare preventivamente. Cinque penalty sbagliati in dieci partite, spiazzanti o masticati, non costituiscono nella più parte un accidente sormontabile o privo di influenza: bensì interferiscono pesantemente nei confronti dell’umore, più che del risultato momentaneo o finale. E quindi del modo con cui ogni squadra cerca di pervenire alla vittoria. Inevitabile, ad esempio, che i due errori dal dischetto di Olivier Giroud e Theo Hernández abbiano condizionato l’umore del Milan, alle prese con il Bologna elastico di Joshua Zirkzee (che partita, che giocatore), impedendogli di frapporre distanze decisive fino alla fine. Così come la sciagurata esecuzione di Nico González ha spento la luce viola quando era più assiduo lo sforzo di contenimento verso la capolista Inter. Non lo stesso si può dire, a Marassi, della prodezza di Josep Martínez, il cui torace ha serrato la porta di fronte al tentativo di Nikola Krstović - solo rinviato - di suggellare la supremazia del Lecce fino a quel momento e per tutto il primo tempo: anzi, l’intervento del portiere spagnolo è stato la pietra sopra la quale il Genoa ha costruito la propria rimonta.
Interessante invece il caso dell’Hellas Verona, dove Ondrej Duda ha avuto il coraggio di avvicinarsi a quel pallone che scotta, proseguendo invece la penalizzante serie negativa: due i rigori segnati dagli scaligeri in campionato, a fronte di quattro errori. Le stesse percentuali del Cagliari (uno su tre), del pari invischiato in una lotta per salvarsi che assumerebbe differenti fattezze qualora dagli undici metri l’esito finora fosse stato diverso. Ma analoga non è la situazione societaria, né la necessità di svendere: come il calabrone vola malgrado la sua struttura fisica, i gialloblu stanno disputando un torneo al di sopra delle proprie possibilità, affrontando al massimo avversari più attrezzati, cavandosela quasi sempre con dignità. Almeno dal campo, la permanenza nella massima serie non è impossibile, nonostante il Bentegodi sia ormai come la Legione Straniera che non chiede generalità a chi sia disposto ad arruolarsi. Un mediano del Vitória Guimarães, qualche aletta olandese va-e-vieni, l’ennesima chance per Rúben Vinagre mentre Riccardo Saponara è alle porte della Turchia: sarà dura arrivare indenni alla fine del mercato, quando il docile Marco Baroni si troverà praticamente a ripartire da zero dopo la preparazione estiva.
Eppure il precedente del 1989-1990, quando con il totem di Osvaldo Bagnoli in panchina l’Hellas sfiorò la salvezza all’ultima giornata, dopo un mercato raccogliticcio, debitore di mille prestiti e rifugio di mestieranti a fine carriera, può essere di ispirazione per i prossimi mesi lungo le rive dell’Adige: sperando magari nella schiarita a livello societario.
Rischia invece vibrazioni inedite il Sassuolo di Alessio Dionisi, che non riesce più a ritrovare la connessione tra gioco e risultati: il serio infortunio dell’insostituibile Domenico Berardi getta fosche nubi davanti al futuro. Avvenire che - dicono in giro da tempo - dovrebbe essere tutto di Simone Pafundi, prestato dall’Udinese al Losanna: si leggono alti strali per la sua mancata valorizzazione, magari da chi dimentica che ben tre allenatori dell’Udinese hanno valutato di non lanciarlo nelle rotazioni, probabilmente poiché la sua maturazione fisica non è ancora giunta a compimento. Quale lesa maestà, dunque, riguardo un 17enne che ha dimostrato qualcosa a sprazzi nella Nazionale di pertinenza: sarebbe forse stata migliore una destinazione nella recalcitrante Serie B italiana, là dove una provinciale arriva a indossare quattro divise differenti (siamo alla digestione della frutta)? La parola ai media pafundisti che, per interposto Roberto Mancini, lo hanno spinto come un meme, a differenza di coetanei che nel silenzio hanno già provato a lasciare un segno.
Buon Erasmus, con la speranza di brillare più di quanto stia facendo il gioco della Lazio, troppo poco sarrista per essere vero: contro un Napoli analogamente decimato, l’unico zero a zero della giornata distribuisce un punto a testa in luogo degli zero dovuti, troppa grazia. E grazie, al plurale, Walter Mazzarri lo deve dire a Leo Østigård, che nel finale dell’Olimpico ha murato lo spazzabile, per la gioia di chi lo acquisterà nelle ultime ore del mercato. Lo stesso, a Torino sponda granata, vale per Saba Sazonov, che dopo gli exploit difensivi di Cagliari sarà chiamato a sostituire al meglio l’infortunato Alessandro Buongiorno: Ivan Jurić continua a ritardarne l’impiego, ma il centralone georgiano sta dimostrando di meritare l’investimento lungimirante con prestazioni improntate al fisico e un tempismo cui non si era abituati. Esotismi, quando la Coppa d’Africa abbraccia gli scontri diretti (bella l’Angola) e si rarefanno le eccentriche maglie lilla dei portieri; l’esultanza del Tagikistan per il passaggio del turno nella massima competizione asiatica dice, ancora una volta, di quanto entusiasmo e brivido di novità ha bisogno il calcio occidentale per sopravvivere a se stesso, all’Arabia e alle superleghe.