Serie A
Roberto D'Aversa aveva bisogno di passione
“Non mi piace parlare di me e di un mio riscatto personale, nel lavoro non c’è rivincita". L'allenatore sta conducendo il Lecce alla salvezza. Una ripartenza dopo anni difficili figlia anche del suo saper aspettare l'occasione buona
In una Serie A che mastica e rigetta giocatori e allenatori alla velocità della luce, Roberto D’Aversa pareva aver preso una brutta china. Colpa, anche, di un certo modo di intendere lo sport e la vita, questione anche di riconoscenza: aveva accettato di tornare alla guida di un Parma in enorme difficoltà dopo essere stato sollevato dall’incarico in maniera abbastanza misteriosa, dopo due stagioni più che buone; quindi era stato esonerato da una Sampdoria destinata, di lì a qualche mese, a imboccare la strada verso gli inferi. Per questo, quando il suo nome è apparso di nuovo associato a una squadra di Serie A, in estate c’era chi aveva manifestato qualche dubbio, in maniera più o meno analoga con quanto stava accadendo con il Frosinone ed Eusebio Di Francesco. Ad alimentare ulteriormente le perplessità, il fatto di raccogliere un Lecce inevitabilmente portato a perdere i pezzi pregiati della stagione precedente. Ma Pantaleo Corvino è uomo che sa il fatto suo e aveva ben presente i valori di un tecnico che rappresentava, come ha dimostrato il campo, la scelta migliore per proseguire il lavoro portato avanti da Marco Baroni.
D’Aversa ha firmato un annuale con opzione di un ulteriore anno in caso di salvezza, mettendosi in gioco. Il primo segnale l’ha dato subito, schiaffeggiando in rimonta la Lazio di Sarri con le reti di un nuovo arrivato (Almqvist) e di un ragazzo con la valigia già pronta per andarsene, Federico Di Francesco. Ora, dopo il ribaltone nel recupero con la Fiorentina, i giallorossi hanno 24 punti in classifica, non possono sentirsi salvi perché il margine sul diciottesimo posto è di sole sei lunghezze, ma in mezzo ci sono così tante squadre da far pensare che il traguardo possa essere più vicino del previsto. E il paradosso è che il Lecce ha raccolto molto meno di quello che ha seminato, perdendo partite che avrebbe meritato quantomeno di pareggiare. Ha messo Ramadani al centro del progetto, facendolo diventare l’erede di Hjulmand; ha rilanciato Pongracic dopo l’infortunio dello scorso anno e quasi nessuno si ricorda più di Umtiti. E sa ruotare molto (e bene) i suoi calciatori: da Oudin a Blin, da Kaba a Gonzalez e Rafia, qualunque sia la mezz’ala in campo, sa sempre cosa fare, segno che c’è un sistema di gioco in grado di superare anche gli eventuali limiti dei singoli. Ha visto scivolare Strefezza in un ruolo marginale, fino alla cessione al Como, ma solo perché i vari Banda, Almqvist e Sansone rispondono presente: non è necessariamente una questione di gol, ma di attitudine. E lo stesso vale per l’alternanza Piccoli-Krstovic al centro dell’attacco.
“Non mi piace parlare di me e di un mio riscatto personale, nel lavoro non c’è rivincita. A Parma ho fatto cose importantissime, con la Samp eravamo dentro l’obiettivo ma mi hanno esonerato. Avevo voglia di Sud, di passione, ci avevo giocato ma mai allenato: sono contento, dopo oltre tre decenni di calcio non è stato facile rimanere fermo un anno e mezzo”, raccontava dopo un inizio di stagione folgorante, quando avrebbe avuto modo anche di urlare al mondo l’amarezza vissuta in questo lungo stop. Eppure parte del segreto potrebbe trovare posto proprio nella decisione di fermarsi a riflettere, di non accettare la prima panchina che passa pur di rimanere sulla cresta dell’onda: spesso gli allenatori si fanno ingolosire da un’opportunità più che da un progetto. D’Aversa, stavolta, ha preferito aspettare. Voleva un posto nel quale sentirsi a casa, un sistema in cui incidere. Lavorando, nutrendosi dell’entusiasmo di una piazza che sa dare affetto, dando fiducia ai giovani. Lecce sembra un bel posto in cui lavorare e D’Aversa, per il momento, se lo gode.