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L'abc della mischia. Intervista a Mirco Spagnolo, pilone sinistro dell'Italia del rugby

Marco Pastonesi

Quando l'arbitro dà il via alla mischia, "sento l'enorme pressione del nostro pacchetto e contemporaneamente l’enorme pressione del pacchetto avversario. Immagino che sia come trovarsi dentro una bottiglia di prosecco, tra vino e tappo, pronti a esplodere"

I piloni vanno tutti in paradiso. Così giurano in Galles. Tutti in paradiso, precisano, senza neanche passare dal purgatorio. Tutti in paradiso, spiegano, perché giù sulla Terra hanno già sofferto le pene dell’inferno. Tutti in paradiso, aggiungono, anche se veramente nessuno di loro sembra un angioletto.

Rugby, mischia: i piloni sono quei due, uno a destra, l’altro a sinistra, della prima linea. Fratelli separati alla nascita e ritrovati sul campo. Grandi e grossi, raramente belli. Base per altezza non diviso ma moltiplicato per due, anche per tre o quattro. Se fosse un circo, il pilone è l’energumeno che regge, sulle sue spalle, una piramide di acrobati ed equilibristi. Se fosse una casa, il pilone è le fondamenta su cui si reggono appartamenti e piani, ascensori e scale, soffitta e tetto. Mirco Spagnolo, pilone sinistro, appartiene a questa specie (spesso piegata in due) e a queste specialità (tenere, spingere, avanzare), dove ignoranza non è un’offesa ma una qualità, una dote, forse un talento. Il suo soprannome non chiarisce misteri, ma rende l’idea: Kabobo.

Spagnolo, cominciamo dalla mischia chiusa?

“E’ quella ordinata dall’arbitro dopo un’infrazione. Otto contro otto. Prima ci si lega. Io afferro il tallonatore alla mia destra, e lo stringo sotto l’ascella, ma forte, un tutt’uno. Poi il seconda linea, che s’incunea tra me e il tallonatore, aggancia la sua mano sinistra sulla mia coscia, un tutt’uno. Quindi il terza ala si lega al seconda e incolla la sua spalla destra al mio – scusate – culo, un tutt’uno. Lo stesso intreccio, incastro, innesto dall’altra parte. Infine il terza centro salda il pacchetto, detta il tempo e comanda l’azione”.

Poi?

“Una volta era una giungla, adesso è un traffico. L’arbitro fa da vigile: crouch, bassi; touch, tocco; pause, pausa; e… engage, ingaggia. Solo a quel punto si può spingere. La verità è che tutti e due i pacchetti cercano sempre di anticipare, anche solo di una frazione di secondo, che può essere decisiva per avanzare e conquistare il pallone”.

Che cosa sente nel momento dell’ingaggio?

“L’enorme pressione del nostro pacchetto e contemporaneamente l’enorme pressione del pacchetto avversario. Immagino che sia come trovarsi dentro una bottiglia di prosecco, tra vino e tappo, pronti a esplodere. Una pressione al quadrato, che può durare uno, tre, dieci secondi, in cui tutti e 16 sembriamo fermi, ma da cui ci rialziamo esausti, esauriti, vuoti, sfibrati, come se fossimo andati avanti e indietro, a tutta, per il campo, allo sprint. Lì, nel cuore della mischia, anche in pieno giorno è sempre notte fonda, e spesso si vedono le stelle”.

Contro l’Inghilterra?

Sono entrato l’ultimo quarto d’ora. Il mio esordio in Nazionale. E davanti a me avevo una leggenda come Dan Cole, quasi 37 anni, 1,91 per 123 kg, un centinaio di partite in Nazionale e tre anche con i Lions, tre Sei Nazioni e quattro Premiership vinti. In settimana l’avevo studiato anche nei minimi dettagli, ma sul campo è un’altra storia. Però su quattro mischie ne abbiamo vinte quattro, e l’ultima salvando la nostra meta. In quei momenti ti senti un soldato, un guerriero, un semidio. Vincere una mischia è come segnare una meta: una figata”.

C’è mischia e mischia?

“La prima mischia serve per prendere le misure, la seconda e la terza per correggere il tiro, dalla quarta in poi non ci sono più scuse”.

Che cosa si vede in campo?

“Il campo, ma anche meno, la tua porzione di campo, ma spesso anche meno, solo il tuo avversario, ma a volte non vedi niente, l’avversario lo spingi e basta. Comunque non vedi le tribune, non vedi lo stadio, non vedi il cielo”.

E che cosa si sente?

“Non i boati, non le urla, non i cori. Solo un brusio di sottofondo”.

Neanche durante gli inni?

“Quelli sì. E in quei momenti vedi tutti gli spettatori, anche quelli alle tue spalle. E li senti tutti, anche quelli che non cantano. E li vedi e li senti come se potessi toccarli”.

Domenica l’Irlanda a Dublino.

“I più bravi della classe”.

A proposito: i suoi studi?

“Due anni di agraria, due di meccanica, uno di meccanica più complicato, insomma diploma di perito meccanico. Poi lavoravo in una trattoria, pagandomi i contributi. Adesso gioco da professionista, e i contributi me li pagano loro”.

L’avrebbe mai detto?

“Mai. Giocavo a pallone, difensore centrale. A 14 anni ho provato con il rugby, la squadra del mio paese Camposampiero si chiama Checco l’ovetto, Checco in omaggio a un bambino morto troppo presto, ovetto che sta al pulcino del calcio. Ed è già molto più quello che ho ricevuto di quello che ho dato. Il titolo italiano Under 18 con il Valsugana, uno scudetto con il Petrarca, il contratto con il Benetton, il debutto in Nazionale…”.

Ha un sogno?

“Non faccio in tempo a sognare che già i sogni diventano realtà. Ci vuole un po’ di tempo anche per sognare. Ma il tempo non mi manca. Ho 23 anni. Per un pilone è come essere ancora alle elementari”.

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